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I Panama Papers, echi in Terra Santa

Giorgio Bernardelli
11 aprile 2016
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Israele e la Palestina non potevano passare ovviamente indenni da un ciclone globale come i Panama Papers, l'archivio di documenti su società registrate nel paradiso fiscale caraibico che in questi giorni sta facendo discutere mezzo mondo.


Israele e la Palestina non potevano passare ovviamente indenni da un ciclone globale come i Panama Papers, l’archivio di documenti su società registrate nel paradiso fiscale caraibico che sta facendo discutere mezzo mondo. E anche se finora sono rimasti un po’ in secondo piano rispetto ai casi più eclatanti – quelli del primo ministro islandese Sigmundur Davíð Gunnlaugsson, dei compari di Vladimir Putin, del padre del premier britannico David Cameron o degli emiri del Golfo Persico – in realtà il versante israelo-palestinese è molto interessante per capire quanto vasto sia lo spettro di operazioni che nel mondo di oggi passano attraverso le società off-shore.

In Israele è Haaretz a partecipare al Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi, che sta passando al vaglio milioni di documenti della società Mossack Fonseca. E tra le firme del quotidiano liberal che se ne stanno occupando c’è una vecchia conoscenza del giornalismo investigativo israeliano: Uri Blau. Si tratta del reporter che con le sue inchieste fece scoppiare lo scandalo immobiliare che ha travolto l’ex premier Ehud Olmert, già delfino di Ariel Sharon. Ma Uri Blau fu anche al centro di un altro caso che qualche anno fa fece clamore: la vicenda di Anat Kamm, una soldatessa che gli aveva passato una serie di documenti scottanti del ministero della Difesa e che, una volta scoperta, finì dietro le sbarre con l’accusa di alto tradimento (alla fine si è fatta 26 mesi di carcere).

Che cosa ha scoperto stavolta Uri Blau scartabellando i Panama Papers? Sono 850 i nomi degli israeliani (e 600 le società) che compaiono nelle liste. Almeno per il momento in Israele non sono emersi grossi coinvolgimenti politici, ma sono ugualmente ritornate a galla due storie significative. La prima risale al 2002 e dice che anche il paradiso fiscale di Panama fu coinvolto nella truffa sulla tentata vendita dei terreni del patriarcato greco-ortodosso a Gerusalemme. Fu una vicenda che all’epoca destò grande scalpore: ne uscì travolto lo stesso patriarca di allora, Ireneo, che nel 2005 – ad appena quattro anni dalla sua elezione – fu sostituito dall’attuale patriarca Teofilo III (ci fu però anche chi parlò di una macchinazione di cui Ireneo sarebbe stato vittima). La vicenda è molto complessa e affonda le radici negli albori di Israele, quando il patriarcato greco-ortodosso cedette in affitto al nascente Stato per novantanove anni una serie di terreni (tra cui pure quello su cui sorge il palazzo che ospita la Knesset, l’assemblea parlamentare) riservandosi il diritto di riassumerne la proprietà al termine del contratto. In sostanza: oggi sappiamo che per compiere l’operazione delicatissima e politicamente esplosiva a Gerusalemme della cessione definitiva di quei terreni si cercò di passare attraverso società gestite dalla Mossack Fonseca a Panama. La vendita però naufragò ed assunse sempre di più i contorni di una truffa; ma è il metodo ad essere indicativo: le società fittizie nei paradisi fiscali sono infatti uno dei sistemi utilizzati per far perdere le tracce nei passaggi di proprietà scottanti a Gerusalemme; una catena di scatole vuote utilizzato da società israeliane legate ai coloni anche per comprare proprietà immobiliari in settori arabi della Città Santa da acquirenti che molte volte non sanno nemmeno a chi realmente stanno vendendo.

Un altro tema scottante che i Panama Papers israeliani rilanciano è quello del traffico di diamanti dalla Repubblica democratica Congo da parte di società israeliane attive in questo tipo di commerci. Il nome di Dan Gertler, controverso imprenditore minerario, compare ben 200 volte nei file dell’archivio della Mossack Fonseca. E il suo non è l’unico caso. Accanto all’evasione fiscale, infatti, i paradisi fiscali sono sedi ampiamente utilizzati per triangolazioni in commerci messi sotto osservazione dalla comunità internazionale per implicazioni sui diritti umani. E in questo preciso ambito rientrano le attività minerarie nella Repubblica democratica del Congo, da sempre indicate come uno dei fattori chiave alla base del perdurare del conflitto che insanguina alcune aree del Paese.

Quanto invece al versante palestinese i due nomi più illustri finora venuti alla ribalta con i Panama Papers sono quelli Tareq Abbas – figlio del presidente palestinese Mahmoud Abbas – e quello di Mohammad Mustafa, altro stretto collaboratore del leader dell’Anp nonché – per un periodo – anche vice primo ministro palestinese. Altro caso in cui il quadro che emerge è ben più complesso rispetto alla mera fuga di capitali all’estero. Dall’inchiesta risulta infatti che le società con sede nei paradisi fiscali – alimentate dai generosi contributi alla causa palestinese da parte dei magnati del Golfo – sono un ingrediente cruciale in quel groviglio di interessi di cui tutti parlano in Palestina citando la corruzione dello storico gruppo dirigente di al Fatah. Società nelle quali i confini tra le casse dell’Autorità Nazionale Palestinese e il tornaconto personale di alcune figure chiave della leadership di Ramallah sono tutt’altro che definiti.

Compravendite immobiliari spericolate, affari sporchi sui minerali africani, corruzione: c’è anche tutto questo dentro i Panama Papers. E il fatto che la mala-finanza finisca così spesso per intrecciarsi con conflitti sanguinosi e lontani da una soluzione è difficile considerarla solo una semplice coincidenza.

 

Sulle inchieste pubblicate da Haaretz relative ai Panama Papers in Israele e Palestina:

Leggi qui il primo articolo in cui si accenna anche alla vicenda dei terreni del patriarcato greco ortodosso

Leggi qui l’articolo sul caso del magnate dei diamanti Dan Gertler

Leggi qui l’articolo sugli affari del figlio di Mahmud Abbas in Palestina

 


A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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