Ricordando Juliano
Sono già trascorsi cinque anni dall’omicidio di Juliano Mer Khamis a Jenin, in Cisgiordania. Vogliamo rendere omaggio alla sua vicenda di uomo speciale, a un tempo ebreo e palestinese fino al midollo.
Cinque anni fa, il 4 aprile 2011, nel campo profughi di Jenin, Territori occupati, veniva ammazzato con cinque colpi di pistola Juliano Mer Khamis (ne scrivemmo all’epoca ne La Porta di Jaffa). Un uomo a volto coperto sbucava da un vicolo e sparava per poi eclissarsi nuovamente. Ancora oggi su questa morte (come del resto su quella di Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza solo pochi giorni dopo, il 15 aprile) la nebbia è fitta. Si è scritto che esecutore materiale del crimine sarebbe stato un membro di Hamas, ma la vicenda è presto finita nel dimenticatoio.
Chi era Juliano Mer Khamis? Attore, regista, sceneggiatore, attivista per i diritti umani, Juliano era noto nei Territori per aver fondato il Freedom Theatre (Teatro della libertà). Figlio di Salima Khamis, arabo-palestinese di famiglia cristiana originario di Haifa noto per la sua militanza comunista, e di Arna Mer, ebrea, attrice ed educatrice, Juliano era nato a Nazaret nel 1958. Figlio di due identità, culture e tradizioni (era solito definirsi «al cento per cento ebreo e al cento per cento palestinese»), al momento della leva si arruolò nelle brigate dei paracadutisti dell’esercito israeliano. La madre Arna Mer, nel frattempo, scelse di vivere nel campo profughi di Jenin durante gli anni della prima intifada e nel 1989 fondò lo Stone Theatre, il Teatro delle pietre, un progetto educativo pensato per i bambini palestinesi che vivono in un contesto di occupazione. Il teatro, per molti di loro, divenne un luogo dove crescere, confrontarsi con le proprie paure e trovare un barlume di speranza. A metà degli anni Novanta Arna muore stroncata da un cancro. Per molti ragazzi di Jenin viene a mancare un punto di riferimento importante. Forse l’unico.
Scoppia poi la seconda intifada. E Juliano, nel nome della madre, decide di ritornare a Jenin per raccontare la vita dei ragazzi che Arna aveva seguito nella loro crescita. Nasce un documentario divenuto un cult: Arna’s children (I ragazzi di Arna), che racconta le storie crudeli di una generazione perduta nel gorgo della violenza e della resistenza anti-israeliana.
Sempre nel nome della madre, Juliano decide di stabilirsi a Jenin e di fondare il Teatro della libertà. Accanto allo studio teatrale, nascono laboratori d’arte. L’intento è quello di ricostruire, insieme, un’identità violata.
«La ricerca dell’identità può avvenire solo attraverso l’attività culturale», spiegava Juliano. E tra le macerie del campo il Freedom Theatre diviene presto un faro di luce.
Juliano Mer Khamis, che non a caso usava il suo doppio cognome del padre e della madre, era orgoglioso della sua doppia fedeltà: all’ebraismo che proclama l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio; e nello stesso tempo alla cultura arabo-palestinese. Aveva fiducia nell’uomo e nell’umanità (risuona nella sua storia il «Restiamo umani» di Vittorio Arrigoni); confidava nella capacità di riscatto di ogni persona. Viveva con i piedi per terra e lo sguardo «oltre», rivolto a un mondo ancora tutto da costruire, ma sperato e possibile.
A qualcuno dell’ala più intransigente e radicale di Hamas non sarà piaciuta l’opera di quel sognatore che levava dalla strada i ragazzi e li distoglieva dall’ideale della lotta armata facendo teatro e insegnando ad usare la telecamera. E neppure sarà stata gradita la sua opera a chi non capiva, nell’era del muro di separazione, come potesse concepirsi un ebreo figlio di un arabo che credeva nel dialogo e nella forza delle idee.
Il giorno in cui venne ucciso, dicono i testimoni, nel campo di Jenin c’era silenzio. Ma la sua storia, a cinque anni di distanza, parla ancora.
Perché “Finis terrae”
Ogni paese e ogni popolo ha il suo Finis Terrae, un punto mitico o reale (spesso entrambe le cose), che indica la fine delle certezze e l’inizio di qualcosa di sconosciuto. Finis Terrae, letteralmente «ai confini della terra», è dunque per noi la metafora per esplorare storie di frontiera, per lasciarci alle spalle ciò che conosciamo e per inoltrarci in ciò che non conosciamo affatto o che comprendiamo di meno. In questo blog cerchiamo di indagare queste zone di confine in Medio Oriente per ricercare nuove chiavi di lettura e registrare piccoli, spesso impercettibili movimenti della coscienza.
Nella certezza che varcare le Colonne d’Ercole della consuetudine e lasciarsi interrogare dall’ignoto sia un esercizio vitale per costruire ponti verso una nuova civiltà.