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Benjamin l’africano

Giorgio Bernardelli
7 luglio 2016
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Sta per concludersi, con l’odierna tappa in Etiopia, un viaggio di alcuni giorni in Africa del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Quattro i Paesi toccati: Uganda, Kenya, Ruanda ed Etiopia. La prima visita di questo spessore di un premier israeliano nell'Africa sub-sahariana si inserisce nella strategia di Israele di riposizionarsi sulla scena internazionale.


Con l’odierna tappa in Etiopia il premier israeliano Benjamin Netanyahu sta concludendo in queste ore una visita in quattro Paesi dell’Africa sub-sahariana: Uganda, Kenya, Ruanda ed Etiopia. Occasione del viaggio – che si concluderà domani, 8 luglio – la commemorazione ufficiale dei 40 anni dell’Operazione Entebbe, il raid per liberare un gruppo di ostaggi israeliani durante un sequestro aereo messo in atto da terroristi palestinesi del Fronte popolare per la liberazione della Palestina nel 1976. Nel blitz con cui i militari riuscirono a liberare gli ostaggi tenuti in un hangar dell’aeroporto di Entebbe perse la vita Yoni Netanyahu, il fratello dell’attuale premier. Per cui è evidente il significato anche personale di questa visita per il leader del partito Likud.

Al di là di questa vicenda, però, l’aver incluso nel viaggio altri tre Paesi oltre all’Uganda ha un chiaro significato politico: dopo decenni è la prima visita di questo spessore compiuta da un premier israeliano nell’Africa sub-sahariana e si inserisce in quella ridefinizione generale della collocazione di Israele nello scacchiere globale di cui parlavamo già un po’ di tempo fa in questo blog. Va anche sottolineato che due dei quattro Paesi – l’Uganda e il Ruanda – sono proprio quelli verso i quali Israele espelle i propri immigrati illegali sudanesi ed eritrei (in pratica: non potendo rimandarli nei loro Paesi di origine, vengono dirottati verso due altri Stati africani in cambio di aiuti economici; salvo poi ricominciare da capo là il loro esodo, dal momento che difficilmente un eritreo o un somalo si fermerà in Ruanda o in Uganda). Senza dimenticare, infine, l’ovvia dimensione anche economica di questa missione: le imprese israeliane, infatti, oggi ambiscono a non restare fuori dal grande gioco che già due decenni fa la Cina ha iniziato in Africa.

Al di là di tutto – però – probabilmente di questo viaggio africano di Netanyahu resteranno nella memoria soprattutto due istantanee, una per certi versi storica, l’altra abbastanza bizzarra. La più simbolica è certamente l’omaggio che il premier israeliano ha reso ieri a Kigali al memoriale del genocidio del Ruanda. Lì Netanyahu ha utilizzato l’espressione «Mai più», sottolineando le similitudini con la Shoah. Si fanno spesso polemiche più o meno sopra le righe sulla sottolineatura ebraica dell’unicità dell’Olocausto; ma – almeno in questo caso – va riconosciuto che tante voci del mondo ebraico sono state in prima linea nello scuotere il mondo dall’indifferenza rispetto al genocidio del Ruanda. E il gesto compiuto ieri da Netanyahu è un invito esplicito anche a non dimenticare quei milioni di morti e le ferite che si sono lasciati dietro.

L’istantanea bizzarra, invece, riguarda un incidente diplomatico avvenuto in Uganda, dove nel discorso ufficiale il solito Yoweri Museveni – da trent’anni presidente del Paese, esemplare di quella gerontocrazia al potere in tanti Paesi del continente – si è ripetutamente rivolto a Netanyahu parlando dei rapporti tra il suo Paese e «la Palestina». Il discorso è stato sconclusionato che ci sono due scuole di pensiero: alcuni l’hanno interpretata come un’improbabile candidatura di Museveni al ruolo di mediatore nel conflitto infinito tra israeliani e palestinesi; ma è molto più verosimile che si sia trattato di una clamorosa gaffe del politico, probabilmente diceva Palestina pensando a Israele. Qualunque sia la spiegazione la cosa a Netanyahu dev’essere comunque andata parecchio di traverso…

Sempre sull’Uganda vale la pena, infine, di segnalare la storia degli Abayudaya, una piccola comunità di ispirazione ebraica che vive in una zona montuosa ai confini con il Kenya. A raccontarla in un articolo interessante è stato in questi giorni Yediot Ahronot. Questa volta non si tratta di una delle famose «tribù perdute», ma di un gruppo convertitosi all’ebraismo all’inizio del XX secolo attraverso l’itinerario personale di un capo carismatico locale. Anche per questo fino ad ora il rabbinato ufficiale è sempre stato molto freddo con gli Abayudaya (anche per via di alcune forme di «inculturazione» africana nel loro modo di pregare). L’anno scorso però – racconta Yediot Ahronot – dall’Agenzia ebraica è arrivato un primo riconoscimento. E adesso questa comunità spera che, con il viaggio di Netanyahu, arrivi anche una facilitazione sui visti, per poter perlomeno andare a studiare in Israele. Ci sarebbe già un parere favorevole in proposito da parte del ministero dell’Interno. Oggi dunque sono probabilmente gli Abayudaya quelli che più di tutti si augurano che la gaffe di Museveni non lasci strascichi…

Clicca qui per leggere l’articolo del Times of Israel sulla visita al memoriale del genocidio in Ruanda

Clicca qui per leggere i dettagli sulla gaffe di Museveni

Clicca qui per leggere la storia degli Abayudaya

 


 

Perché “La Porta di Jaffa”

A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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