Negli Stati Uniti, l’estrema destra condanna il presidente Barack Obama per il suo presunto rifiuto di parlare di «terrorismo islamico radicale», e cioè di rapportare il terrorismo all’Islam. Anche nella Chiesa qualcuno lamenta una simile «omissione» da parte del Santo Padre. «Chiamiamo il terrorismo per nome e cognome!», gridano essi. E se lo si facesse, così come vogliono costoro? Si farebbe esattamente il gioco dei terroristi. Si riconoscerebbe giusta la loro iniqua pretesa di impersonare il più autenticamente possibile (questo il senso di «radicale») la religione di più di un miliardo di persone in tutti i continenti, e con ciò si metterebbe finalmente in atto l’agognato «scontro di civiltà», da tempo sognato dai fautori dell’orwelliano stato di guerra infinita. Venuto a mancare il «comunismo internazionale», i guerrafondai si son trovati spaesati, privi del tanto necessario Nemico globale, misura di tutte le cose e pretesto di tutte le misure da prendere. La tentazione è forte, anche per le persone più o meno normali, di ridurre una gran varietà di eventi terrificanti ad una formula così semplice da poter entrare anche in un solo messaggio su Twitter da non più di 140 caratteri. Vi cascano tanti. Troppi. Resistiamo. Non per «buonismo» o facile irenismo, ma per la verità, la giustizia e, non meno, la nostra sicurezza. Vediamo le cose come veramente sono.
Ammesso – e non concesso – che «tutti i terroristi sono musulmani», non ne conseguirebbe che «tutti i musulmani sono terroristi» in atto o quantomeno in potenza. Un’esigua porzione dei musulmani nel mondo, statisticamente del tutto insignificante, sosterrebbero il terrorismo. Moltissimi di più ne sono le vittime, come moltissimi di più sono i musulmani che lo contrastano decisamente.
Certo, nelle Scritture dei musulmani si possono trovare versetti che, se isolati dall’oceanico insieme del loro patrimonio ideale, potrebbero essere abusati per argomentare che codesta religione tenda a favorire, ad imporre, la violenza – così come ambo gli estremisti e gli avversari sanno fare in riferimento alle tradizioni ebraica e cristiana. E se anche supponessimo – dato e non concesso – che sia più facile farlo nel caso dell’Islam, quale profitto si trarrebbe dal confermare la tesi dei terroristi che siano proprio quei versetti – e non altri, opposti – a caratterizzare la religione di cui essi si appropriano? Non è forse molto più vantaggioso – collocandoci pure sul terreno della prudenza strategica, mettendo da parte ogni pretesa «buonista» – negarla? Non è forse di gran lunga più saggio respingere il loro tentativo di farci cadere nella trappola di inimicarci i nostri vicini musulmani tutti quanti? Sappiamo invece mostrarci sinceri estimatori dei vasti tesori di sapienza, pietà e, sì, umanità e misericordia, che primeggiano nell’enciclopedica tradizione religiosa e culturale dei musulmani del mondo, facendocene alleati e non nemici. Così il concilio Vaticano II ci insegna che «la Chiesa guarda con stima i musulmani, i quali adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente”, al quale essi rendono culto “soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno» (Nostra aetate n. 3).
Scrivo poco dopo aver letto la dura – ragionata e documentata – replica di un rabbino israeliano ad un collega estremista che adduceva un presunto precetto xenofobo per rimproverare i giovani militari ebrei che «tradirebbero la Nazione» impegnandosi nel volontariato in aiuto ai bambini africani rifugiati in Tel Aviv.