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Trump e l’affare della vita

Giorgio Bernardelli
14 novembre 2016
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Non poteva mancare la domanda sul conflitto israelo-palestinese nella prima intervista ufficiale del neo-presidente americano Donald Trump, rilasciata giorni fa al Wall Street Journal. Non poteva mancare; e la risposta è stata quella tipica dell'imprenditore sceso in campo in politica: la pace come l'affare impossibile, che un uomo ambizioso come lui vorrebbe portare a casa.


«La pace tra Israele e Palestina è l’affare della vita. E come uomo d’affari vorrei proprio portare a casa l’affare impossibile. Farlo per il bene dell’umanità».

Non poteva mancare la domanda sul conflitto israelo-palestinese nella prima intervista ufficiale del neo-presidente americano Donald Trump, rilasciata giorni fa al Wall Street Journal. Non poteva mancare; e la risposta è stata quella tipica dell’imprenditore sceso in campo in politica: la pace come l’affare impossibile, che un uomo ambizioso come lui vorrebbe portare a casa. Cambia il linguaggio, certamente; ma in fondo il registro delle buone intenzioni è lo stesso squadernato da ogni nuovo inquilino della Casa Bianca. Salvo poi ritrovarsi a ridimensionare in fretta le ambizioni al momento dello scontro con la realtà dura del conflitto.

Sarà questo anche il destino di Donald Trump? Toccherà ovviamente al tempo dirlo. C’è da aggiungere, però, che per lui un test si annuncia già molto rapido. E per di più proprio sul terreno che conosce meglio: quello dell’edilizia. Il partito di Naftali Bennett (che è poi quello in cui si riconosce la maggioranza dei coloni in Cisgiordania) non ha infatti perso tempo e proprio il giorno dopo le dichiarazioni di Trump sulla pace come l’«affare della vita» ha portato al Comitato ministeriale sulla legislazione il disegno di legge per la legalizzazione di tutti gli outpost, cioè gli insediamenti che persino per la normativa israeliana risultano fuori legge.

Il Comitato ministeriale sulla legislazione è un organismo politico: è l’ambito in cui i partiti di maggioranza in Israele decidono su quali disegni di legge impegnare la coalizione alla Knesset. Bennett (che è ministro dell’Educazione) e la sua collega di partito Ayelet Shaked (ministro della Giustizia) premono per portare in discussione la legge sugli outpost per evitare lo sgombero di Amona, l’insediamento realizzato senza nemmeno i requisiti di proprietà sulla terra, che da anni ormai l’Alta Corte di Giustizia israeliana chiede allo Stato di togliere di mezzo. Il nuovo termine per eseguire lo smantellamento è stato fissato al 25 dicembre, ma i coloni non ne vogliono comunque sapere. E invocano la legge sugli outpost proprio per sanare questa e altre situazioni oggi indifendibili nei tribunali israeliani. Il premier Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Avigdor Lieberman si oppongono alla legalizzazione; questo sia per l’evidente problema istituzionale di un ministro della Giustizia che si schiera contro la Corte Suprema, sia per le reazioni internazionali che una mossa del genere avrebbe. E contro si era schierata anche l’Avvocatura generale dello Stato. Eppure – complice probabilmente proprio il clima di euforia per la «liberazione» dall’amministrazione Obama, avvertita come ostile dalla destra israeliana – al Comitato ministeriale Netanyahu e Lieberman sono finiti in minoranza; dunque il provvedimento arriverà a giorni alla Knesset (il parlamento israeliano) per essere discusso, ufficialmente con il sostegno della maggioranza di governo.

Il passo non è da poco: nel 2005 il Rapporto Sasson – l’ultimo censimento ufficiale in materia commissionato da Sharon – stimava in ben 105 gli outpost. Legalizzarli in blocco significherebbe nella sostanza raddoppiare il numero delle colonie in Cisgiordania, ponendo le basi anche per una crescita esponenziale della popolazione che li abita. È evidente il gioco a cui punta Bennett: far passare la legge nella fase di transizione tra un’amministrazione americana e l’altra, giocando sulla dichiarata non ostilità del neo-presidente nei confronti degli insediamenti. Ma il Donald Trump alla Casa Bianca sarà davvero lo stesso Donald Trump delle dichiarazioni in campagna elettorale?

Anche in Israele non tutti oggi ne sono così sicuri. E c’è chi – come Itamar Eichner – ricorda una frase eloquente buttata lì già qualche mese fa, in nome dell’America first: «Anche Israele dovrà essere disposta a pagare per l’enorme assistenza militare che riceve da noi…», disse l’allora candidato repubblicano facendo alzare più di un sopracciglio a Gerusalemme.

La verità è che Donald Trump resta un grande punto di domanda per tutti in Medio Oriente. I coloni hanno intenzione di provare a stanarlo, scavalcando a destra le prudenze di Netanyahu. Ma le case di Amona sono davvero un affare per chi sta alla Casa Bianca? L’immobiliarista globale Trump è bene che cominci molto in fretta a fare i suoi conti.

Clicca qui per leggere le dichiarazioni di Trump sulla pace in Israele e Palestina

Clicca qui per leggere l’articolo sul disegno di legge per regolarizzare gli outpost

Clicca qui per leggere il commento di Itamar Eichner

 


 

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A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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