(g.s.) – Una consuetudine ormai affermata vuole che a ridosso delle feste natalizie l’Ufficio centrale di statistica israeliano pubblichi ogni anno qualche cifra sulla popolazione cristiana che vive nel territorio dello Stato ebraico.
Dati che evidenziano una lieve ma costante tendenza alla crescita numerica di questa comunità che nel 2016 ha raggiunto le 170 mila persone, pari al 2 per cento della popolazione complessiva. L’incremento rispetto all’anno precedente è di 1,5 punto percentuale. Va considerato che i demografi israeliani computano i cittadini cristiani stabilmente e legalmente residenti (e quindi escludono i lavoratori stranieri presenti in Israele solo per alcuni anni, che pure oggigiorno sono una presenza costante nelle Chiese e comunità cristiane di Terra Santa). Fatta questa precisazione, gli altri dati disaggregati confermano quanto già noto: il 78,9 per cento dei cristiani è costituito da palestinesi di cittadinanza israeliana, mentre gli altri sono immigrati nel corso degli ultimi decenni – soprattutto dai Paesi dell’ex Unione Sovietica – al seguito di congiunti ebrei, usufruendo con loro dei benefici della Legge del Ritorno, che incoraggia ad immigrare in Israele gli ebrei della diaspora d’ogni parte del mondo.
Proviamo a colorare questi dati incrociandoli con quanto emerge da una conferenza sui cristiani in Israele, pronunciata il 6 dicembre scorso dal gesuita padre David Neuhaus, uno dei vicari del patriarcato latino di Gerusalemme, e riportata integralmente, in inglese, nel sito Internet della curia patriarcale.
Prima annotazione: lo sguardo di Neuhaus è pastorale e considera tutti coloro che si sentono membri del popolo di Dio, che abbiano o meno la cittadinanza dello Stato ebraico. Cosa che lo induce a includere nel computo anche 160 mila lavoratori stranieri, più o meno avventizi, e richiedenti asilo (di questi 35 mila sono africani, in gran parte eritrei).
Nel tratteggiare il volto di queste Chiese, padre Neuhaus menziona anzitutto il caleidoscopio di denominazioni cristiane rappresentate nei luoghi santi della Redenzione: greco-ortodossi e greco-cattolici (melchiti); cattolici latini e maroniti; armeni e siriaci (anch’essi in due comunità: ortodossi e cattolici); copti, etiopi, anglicani, luterani e una pletora di gruppi evangelici. Ai quali si aggiungono i giudei messianici, che non aderiscono ad alcuna comunità ecclesiale ma professano che Gesù è il Messia atteso.
Neuhaus non manca di segnalare come dal 1948 ad oggi, per effetto degli eventi bellici che hanno trapuntato le relazioni arabo-israeliane, la presenza cristiana in Terra Santa si sia ridotta a un quinto: 70 anni fa i cristiani erano uno ogni dieci abitanti.
Il drastico ridimensionamento è figlio di un esodo massiccio, ma anche di un indice di natalità che tra i cristiani è assai inferiore a quello dei musulmani e degli ebrei.
Eppure, come dicevamo, negli ultimi anni tra i cristiani in Terra Santa si registrano non solo partenze, ma anche arrivi: il gesuita israeliano cita i sobborghi meridionali di Tel Aviv, ove si concentrano molti lavoratori stranieri e richiedenti asilo e fioriscono i luoghi di culto, più o meno improvvisati e visibili, molti dei quali gestiti da pastori della galassia protestante e pentecostale.
Tra le sfide cruciali che padre Neuhaus individua ve n’è una ricorrente ed è quella dell’assimilazione alla maggioranza. Sfida comune, d’altronde, a molte società di stampo occidentale. Qui non si va solo verso posizioni agnostiche o di abbandono della pratica religiosa. In Israele, annota il gesuita, «lo Stato promuove la conversione al giudaismo di coloro che hanno un retroterra ebraico e ciò accade particolarmente durante il servizio militare, quando i giovani vengono incoraggiati ad aderire alla maggioranza diventando formalmente ebrei». Vi sono poi i figli di lavoratori stranieri, che magari hanno frequentato il catechismo e la chiesa insieme ai genitori fino a una certa età, ma poi cedono alla seduzione della vibrante cultura laica che si respira tra i loro coetanei e disertano la comunità cristiana.
Sarebbe invece importante, secondo Neuhaus, che i cristiani mantenessero la propria specificità e dessero il loro contributo specifico alla società israeliana, soprattutto in settori come l’istruzione, i servizi sociali, la sanità, ma anche adottando e promuovendo un linguaggio e una visione improntati all’amore, alla riconciliazione, al rispetto dei diritti umani. Perché ciò sia possibile è essenziale, però, che i cristiani in Israele – ma anche nel resto della Terra Santa – diventino consapevoli della loro speciale vocazione a testimoniare il Vangelo nella terra che fu il primo teatro della storia della Salvezza.