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Diyarbakir come Toledo? Anche no, grazie

Chiara Cruciati
2 febbraio 2017
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Diyarbakir come Toledo? Anche no, grazie
Nella foto un tratto delle mura che racchiudono il centro storico di Diyarbakir. (foto Wikimapia)

Dopo averla bombardata, il governo turco ora promette di ricostruire Dyarbakir. Un piano, contestato da più parti, prevede interventi urbanistici in città e in altri 22 centri a maggioranza curda nel sud est della Turchia.


La promessa è ricostruire 67 mila case in 23 città del sud est della Turchia a maggioranza curda: il premier Binali Yildirim è tornato a parlare del piano governativo pochi giorni fa. «Saranno più belle di prima», ha detto; «Faremo di Diyarbakir una nuova Toledo», diceva qualche mese fa il suo predecessore Ahmet Davutoglu.

La devastazione che nell’ultimo anno e mezzo ha reso irriconoscibili città e villaggi curdi la raccontano i numeri raccolti a dicembre da Amnesty International: mezzo milione di sfollati, 24 mila solo a Diyarbakir. Non una città qualsiasi, ma la “capitale” politica e culturale del Kurdistan storico, punto di riferimento dell’identità di un popolo senza Stato e comunità antichissima, come raccontano le sue mura di basalto, chiese, moschee e sinagoghe. Un centro storico, Sur, con i suoi 11 quartieri, tanto prezioso da essere parte del patrimonio Unesco; mura assire risalenti a cinque secoli fa, con i loro 5 chilometri di lunghezza e quattro porte d’accesso; infine i giardini Hevsel, 8 mila anni di storia, che si stendono tra la città e il fiume Tigri.

Dopo mesi di operazioni militari è la devastazione: edifici di pietra e terra capaci di resistere per secoli hanno ceduto alla potenza di fuoco turca. Coprifuoco, colpi di artiglieria e incendi hanno distrutto molte delle sue bellezze e almeno 800 edifici. Dall’altra parte stava la resistenza cittadina fatta di barricate e ordigni esplosivi, guidata dai combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) «scesi dalle montagne».

Oggi si deve ricostruire, ma i piani del governo spaventano la comunità curda: gentrificazione, confische, militarizzazione, modifica della demografia sono le parole che corrono tra le città e sulle pagine dei quotidiani internazionali. Timori che non sono campati in aria, soprattutto dopo l’ondata repressiva contro i partiti curdi e turchi di sinistra eletti nei comuni del sud est: con lo stato di emergenza post-golpe, il governo ha rimosso centinaia di sindaci perché membri della fazione di opposizione, il Partito democratico dei popoli (Hdp). Centinaia di comuni sono stati commissariati, togliendo alle comunità il controllo sulla ricostruzione.

A settembre Yildirim parlava di un investimento di 577 milioni di euro solo per il distretto di Sur (tre miliardi per tutto il sud est), ma al momento gli unici lavori sono stati destinati a costruire caserme e stazioni di polizia. Ancora oggi il coprifuoco permane in alcune zone di Diyarbakir, controllato da innumerevoli telecamere di sorveglianza, pattuglie e soldati, mentre aree del centro storico restano inaccessibili a causa dei blocchi di cemento posti dall’esercito e le demolizioni proseguono.

Le storie emergono nei racconti dei giornalisti che visitano la città: le famiglie che rientrano dopo essere fuggite dagli scontri trovano le case in macerie, intere vie scomparse, negozi distrutti (solo nel centro storico circa 1.500). Non sono pochi, dunque, quelli che decidono di andarsene, in periferia o fuori dalla città. Eppure il progetto pubblicizzato dal governo è altisonante: con le prime chiese e moschee in via di ristrutturazione, il ministero degli Affari urbani ha promesso la ricostruzione di 8 mila abitazioni in città e la protezione di mille strutture per il loro valore storico e architettonico.

Ma c’è chi alza la voce: l’Unione turca degli architetti e la Camera degli ingegneri denunciano il tentativo di modificare il volto della città, con quartieri off limits per i residenti, un approccio “securitario” attraverso la creazione di zone militari racchiuse da muri alti 8 metri; la demolizione di almeno 976 edifici; la modifica delle vie di comunicazione e il conseguente danneggiamento della struttura urbana di Diyarbakir.

Tra le previsioni paventate da Yildirim ci sono anche il divieto di costruire palazzi più alti di due piani (con il numero di residenti a Sur pari a 120 mila persone, significherebbe svuotare la parte centrale della città) e l’offerta di un appartamento in periferia a chi ha perso la casa, come forma di compensazione. Se l’idea di ricostruire un centro storico lussuoso (appunto, in stile Toledo) si concretizzasse, la comunità – impoverita dall’ultimo conflitto e già ai margini degli investimenti nazionali – si troverà di fronte a prezzi inaccessibili e una sola opzione: trasferirsi. Una doppia gentrificazione, militare ed economica.

La situazione è simile a Cizre, città che ha subito dal luglio 2015 un terrificante livello di violenza: i coprifuoco, durati mesi, hanno affamato la popolazione e ucciso centinaia di civili, alcuni morti di stenti nei sotterranei degli edifici dove avevano cercato riparo, impossibilitati ad uscire dal fuoco dei cecchini turchi.

Pannelli pubblicitari con la scritta La costruzione comincia stanno comparendo nelle strade principali della città. Di più non si sa. Di certo c’è il percorso inverso compiuto dalla popolazione curda: costretta negli anni Ottanta del secolo scorso a lasciare le zone rurali per dirigersi verso le città dall’ampia campagna di confisca delle terre condotta dalle autorità turche, ora abbandona i centri urbani verso le periferie. E le grandi città, base dell’organizzazione politica popolare, si svuotano. Un colpo durissimo alle antiche mura di Sur, ma anche alla fabbrica sociale curda.

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