Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Riflessioni sulla battaglia di Baghouz

Fulvio Scaglione
19 marzo 2019
email whatsapp whatsapp facebook twitter versione stampabile

Si combatte aspramente, e senza esclusione di colpi, la battaglia contro l'ultima roccaforte dell'Isis. E pure qui si ripete la maledizione di tutte le ultime guerre: muoiono soprattutto civili. Anche quando "arrivano i nostri".


Il meccanismo fondamentale della propaganda è binario, inalterato da secoli: parlare tanto oppure tacere sempre. Parlare tanto dei “peccati” altrui e tacere sui propri. Un meccanismo rozzo ma efficace, soprattutto da quando esiste l’informazione di massa di (in ordine di pervasività) giornali, televisione e Rete.

Lo vediamo bene anche ora che si parla di Baghouz, l’oscura città siriana lungo l’Eufrate, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Iraq, assurta a improvvisa fama perché trasformata dai jihadisti dello Stato islamico nell’ultimo baluardo della loro resistenza. Contro Baghouz muovono le Forze Democratiche Siriane (Syrian Democratic Forces, Sdf), alleanza di reparti curdi e arabi sostenuti politicamente e militarmente dagli Usa.

Da quando, nel 2014, la milizia jihadista ha fatto la propria comparsa in Siria e in Iraq fondando il Califfato (ma l’Isis operava già da prima), è passato più tempo di quanto ne sia occorso, ai tempi, per annientare Hitler e la formidabile macchina da guerra del nazismo. E Hitler non aveva contro una coalizione di 70 Paesi come invece aveva, almeno in teoria, l’Isis. È quindi più che tempo di farla finita con questi terroristi che hanno deciso di morire piuttosto che arrendersi. Anche perché la fine ormai vicina non li ha resi migliori: man mano che le forze dell’Isis si ritirano, quelli dell’Sdf scoprono fosse comuni piene di cadaveri di civili trucidati. Una, pare, con decine e decine di corpi di donne yazide assassinate dopo essere state usate come schiave.

Badiamo però a come si svolge questo capitolo finale. Di giorno le forze curde e arabe avanzano con grandissima cautela, perché l’Isis combatte con astuzia e spietatezza impiegando i cecchini, dispiegando trappole (la morte del combattente italiano Lorenzo Orsetti è stata una drammatica conferma), piazzando origini esplosivi, lanciando kamikaze. Di notte tutto cambia. Gli americani usano i droni e gli aerei e martellano la città, dove i civili peraltro sono ridotti alla fame. Coloro che sono riusciti a scappare da Baghouz raccontano di centinaia di abitanti usati come scudi umani dai terroristi e uccisi dai bombardamenti. Si ha anche il sospetto che alcune delle fosse comuni contengano, appunto, i corpi di quelli morti sotto le bombe.

Però, e torniamo al tema della propaganda, nessuno ne parla. In perfetta linea con quanto abbiamo già visto: Aleppo era una carneficina di innocenti, medici, soccorritori. Raqqa, Mosul in Iraq e ora anche Baghouz delle “normali” spedizioni militari. La ragione è semplice: ad Aleppo operavano i “cattivi”, l’esercito di Assad e i russi; negli altri casi i “buoni”, gli americani e i curdi.

Anche ammesso che questa distinzione tra “buoni” e “cattivi” sia valida, resta un problema. Un civile è un civile, in qualunque città. E una bomba è una bomba, chiunque la sganci. E rispetto a questa realtà, la propaganda di cui sopra è ripugnante. Non tanto perché spinge a fare il tifo per questo o per quello, ma soprattutto perché tende a nascondere la realtà della guerra contemporanea, che è guerra “sui” civili. Nella prima guerra mondiale i morti civili furono circa il 16 per cento di tutti i morti. In un arco di tempo simile a quello del conflitto 1915-1918, in Iraq, dopo l’invasione anglo-americana, i morti civili furono il 90 per cento del totale. Anche nella guerra siriana i morti senza uniforme sono stati assai più numerosi di quelli in divisa. Nella guerra contemporanea, le “vittime collaterali” sono i militari. La consapevolezza di questo fatto, che rende il conflitto armato ancor più inaccettabile, deve valere sempre. A Baghouz come ad Aleppo, a Fallujah come a Gaza, ad Afrin come a Raqqa o nello Yemen. Come ovunque.

 


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

La voce di un silenzio sottile
Johannes Maria Schwarz

La voce di un silenzio sottile

Un cercatore di Dio racconta
Il giardino segreto
Roberta Russo

Il giardino segreto

L’Albero del Natale e gli altri simboli della tradizione
David Maria Turoldo
Mario Lancisi

David Maria Turoldo

Vita di un poeta ribelle