Ebraica o cristiana, la Pasqua parla di catene infrante e nuovi cammini che si aprono. Che vuol dire far Pasqua in un momento in cui i muri si moltiplicano in tante parti del mondo?
Se c’è una festa a cui non vanno molto a genio i muri è certamente la Pasqua, tanto quella ebraica quanto quella cristiana. Da una parte abbiamo la liberazione di un popolo che nemmeno le acque del Mar Rosso furono in grado di fermare; dall’altra la pietra rotolata dal sepolcro, che vince persino la barriera più invalicabile: quella della morte. Come sappiamo, quest’anno le tre Pasque – quella ebraica, quella delle Chiese cristiane d’Occidente e quella delle Chiese d’Oriente – cadono in questi stessi giorni. Ma succede in un tempo in cui proprio le migrazioni e l’illusione di fermarle attraverso i muri sono il grande tema all’ordine del giorno in tante parti del mondo. Non stupisce, allora, che la questione dell’umanità migrante interpelli in maniera particolare anche queste nostre Pasque.
Lo spiega bene padre David Neuhaus, il vicario della comunità di espressione ebraica del patriarcato latino di Gerusalemme, nel messaggio inviato per la Settimana Santa al Coordinamento per la pastorale dei migranti. A Pasqua – scrive – «dal vecchio mondo che conosciamo siamo chiamati a passare a quello nuovo, dove non ci sono muri e gli orizzonti sono aperti. E anche se nella realtà che ci circonda non ci sono molti segni di questo nuovo mondo, nella Pasqua siamo chiamati a rinnovare il nostro impegno a farci ambasciatori del nuovo mondo – del Regno di Dio, dove la risurrezione ha vinto sulla morte. Lasciamoci tutti rinnovare nello spirito – conclude padre David – accompagnando Gesù nella Sua via attraverso la sofferenza e la morte, partecipando della gioia della Sua risurrezione, in modo da poter essere rafforzati, consolati e rinnovati nella nostra missione tra i poveri e gli emarginati, i migranti e i rifugiati, gli sfruttati e coloro che sono privati di ogni diritto».
Sulla stessa lunghezza d’onda sono anche numerose comunità ebraiche che stanno vivendo così la loro Pasqua. È il caso ad esempio dell’associazione dei Rabbini per i diritti umani, che da anni ormai vive il proprio seder – la cena pasquale – a Holot, il centro di detenzione per i richiedenti asilo africani, confinati dalle autorità israeliane nel deserto del Neghev. Un modo concreto per rendere visibile il messaggio di liberazione annunciato dall’esperienza dell’Esodo.
Complice il Travel Ban di Donald Trump – però – quest’anno anche dall’altra parte dell’Oceano, tra le comunità ebraiche americane, il tema dei migranti è stato molto presente nelle attualizzazioni dell’Haggadah, il rituale che scandisce la celebrazione del seder nella Pasqua ebraica. Tra le diverse esperienze raccontate nell’articolo dal Times of Israel che trovate linkato sotto c’è anche quella dell’American Jewish World Service (AJWS), un’organizzazione solidaristica ebraica. Tra i materiali diffusi dall’AJWS c’è anche un video che parte da uno di canti tradizionali della Pasqua ebraica: Dayenu. In ebraico Dayenu significa «ci sarebbe bastato» e durante l’Haggadah è una preghiera litanica che si ripete per ciascuna delle azioni compiute dall’Altissimo: «Se avesse fatto giustizia del Faraone e non ci avesse liberato da tutti gli idoli, sarebbe stato lo stesso, ci sarebbe bastato. Se ci avesse liberato da tutti gli idoli e non ci avesse dato le loro ricchezze, sarebbe stato lo stesso, ci sarebbe bastato. Se non ci avesse dato le loro ricchezze e non avesse aperto il mare per noi sarebbe stato lo stesso, ci sarebbe bastato…» e così via per quindici strofe fino al dono più prezioso, quello dello shabbat. Il tutto per elencare quanto generoso è stato il Signore con il suo popolo. Ma che cosa «ci basterebbe» nella Pasqua di oggi? È quanto nel video dell’AJWS viene chiesto ad alcune persone che elencano i grandi mali di oggi: la fame, l’ingiustizia, il cambiamento climatico… Certo, il Dayenu parla di doni già ricevuti dall’Altissimo. Ma forse la vera Pasqua sta proprio nello scoprire che anche da queste piaghe la liberazione è già iniziata. E spetta a noi metterci in cammino. Buona Pasqua!
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Perché “La Porta di Jaffa”
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.