«Gli uomini non fanno mai il male così completamente ed entusiasticamente come quando lo fanno per una convinzione religiosa» (p. 13). Con questa citazione di Pascal si apre lo splendido volume Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa, appena tradotto in italiano per i tipi di Giuntina e dedicato a un tema di grande attualità, ovverosia la violenza nel nome di Dio. Il saggio, scritto da una vera e propria autorità dell’ebraismo inglese, non è il solito e scontato pamphlet sulla violenza che caratterizza o ha caratterizzato i monoteismi; esso piuttosto cerca di mettere in luce quali siano i meccanismi profondi che scattano all’interno dell’esperienza religiosa, sfociando nella violenza.
Punto di partenza della riflessione di Sacks è una considerazione molto realista a proposito della temperie del nostro tempo: «Non abbiamo più bisogno della Bibbia per spiegare l’universo. Invece abbiamo la scienza. Non abbiamo bisogno del rituale sacro per controllare il destino umano. Al suo posto abbiamo la tecnologia. Quando ci ammaliamo, non abbiamo necessità di pregare. Abbiano i medici, la medicina e la chirurgia. Se siamo depressi c’è un’alternativa al conforto della religione: gli antidepressivi. Quando siamo sopraffatti dal senso di colpa, possiamo scegliere la psicoterapia al posto del confessionale. Per coloro che cercano la trascendenza ci sono i concerti rock e gli incontri sportivi. Quanto alla mortalità umana, la cosa migliore da fare, come ci dicono le rubriche giornalistiche di consigli, è non pensarci spesso. Le persone possono nutrire dei dubbi sull’esistenza di Dio, ma sono ragionevolmente sicure che se non lo si infastidisce, lui non infastidirà noi» (p. 23). In altre parole, siamo nel tempo del laicismo. E tuttavia Sacks aggiunge: «Se c’è una cosa che le grandi istituzioni del mondo moderno non fanno è il fornire un senso. La scienza ci spiega il come ma non il perché. La tecnologia ci dà potere ma non è in grado di guidarci su come usarlo. Il mercato ci offre delle scelte ma ci lascia privi d’istruzioni su come fare quelle scelte. Lo Stato democratico liberale ci dà la libertà di vivere come vogliamo ma per principio rifiuta di guidarci su come scegliere» (p. 24). Ne consegue che la religione da una parte è biasimata, dall’altra è ricercata e necessaria per dar voce alla grande domanda di senso.
V’è però un altro dato evidente: gli estremismi religiosi si stanno diffondendo. Ne consegue «che non abbiamo altra scelta che riesaminare la teologia che porta in primo luogo al conflitto violento. Se non facciamo questo lavoro teologico, ci troveremo di fronte a un perdurare del terrore che ha segnato il nostro secolo finora, perché non ha altra fine naturale» (p. 30). Nella prima parte del suo libro (intitolata “Malafede”) il rabbino inglese esplora tre fenomeni: forma mentis, mito e rivalità fraterna. «Primo: c’è una specifica forma mentis che rende possibile la malvagità altruistica: il dualismo. Questo è incompatibile con il monoteismo ma ciò nonostante di tanto in tanto vi ha trovato spazio. Secondo: ci sono miti che nutrono questo abito mentale, sono sorprendentemente duraturi e adattabili, si spostano da una religione all’altra e si insinuano perfino nelle culture laiche. Terzo: c’è quella relazione unica tra le tre fedi abramitiche che le ha messe in tensione l’una con l’altra» (p. 34).
Il primo fenomeno messo in luce è il dualismo. «Le grandi fedi del mondo hanno detto cose sublimi sull’amore, la compassione, il sacrificio e la carità. Ma questi nobili sentimenti sono spesso rimasti entro in confini dei correligionari o, perlomeno, dei potenziali correligionari. Contro i miscredenti, i membri di un’altra fede o agnostici, e quelli della nostra fede che riteniamo eretici, la religione può essere dura e spietata» (p. 43). Il meccanismo è quello del Noi e del Loro: «Noi siamo buoni. Loro sono cattivi. E le cose cattive stanno accadendo a noi perché qualcuno cattivo le sta facendo» (p. 65). Il dualismo è un’idea pericolosa, un’idea da sempre respinta dalla Sinagoga e dalla Chiesa. E tuttavia il dualismo patologico tenta sempre di insinuarsi nelle pieghe dell’esistenza religiosa. «Il dualismo patologico fa tre cose. Fa disumanizzare e demonizzare il nemico. Porta a vedere te stesso come una vittima. E ti permette di commettere della malvagità altruistica, uccidendo in nome del Dio della vita, odiando nel nome del Dio dell’amore e praticando la crudeltà nel nome del Dio della compassione» (p. 66). La disumanizzazione impedisce ogni forma di immedesimazione nell’altro e cancella ogni forma di compassione nei suoi confronti, sospende addirittura le emozioni che impediscono di compiere il male. Il vittimismo, invece, devia la responsabilità morale, induce ad addossare la colpa ad altri (secondo il solito meccanismo: «non è colpa nostra, è colpa loro»). Infine la malvagità altruistica arruola persone generose per una cattiva causa, trasformando esseri umani comuni in assassini, in nome di alti ideali.
I nazisti per mezzo del cosiddetto “studio scientifico” intendevano dimostrare la loro purezza razziale e l’inferiorità degli ebrei; per quei tedeschi stabilire la sub-umanità degli ebrei era assolutamente fondamentale, al fine di attuare il piano della loro eliminazione. Per i turchi i nemici erano gli armeni, per i serbi i musulmani, per Pol Pot i capitalisti e gli intellettuali. Il meccanismo, purtroppo, si ripete in tempi e spazi differenti ma alla base v’è sempre il dualismo: l’umanità è divisa nelle categorie assolute del bene e del male, il bene sta da una parte e il male dall’altra, il bene dalla nostra parte e il male dalla loro. Da qui tutti i gli “argomenti” fasulli tipici di questo tipo di retorica: il male cerca di distruggere il bene, i nemici stanno cercando di distruggerci, se non v’è alcuna prova è il segno che operano in segreto, se negano questa è la prova che l’accusa è vera, e così via.
Sacks evoca la celebre tesi di René Girard sul capro espiatorio. Alla scuola di Freud l’antropologo francese afferma che non è la religione che dà origine alla violenza, bensì la violenza che dà origine alla religione. Lo scontro fra due gruppi trova la sua conclusione con l’uccisione di un terzo gruppo: sacrificando l’estraneo (appunto il capro espiatorio), si verifica un’uccisione a scopo di vendetta; così entrambe le parti sentono che giustizia è stata fatta e che la violenza è bloccata, in quanto la vittima non appartiene a nessuno dei due gruppi in lotta. «Per un migliaio di anni il capro espiatorio preferito in Europa e in Medio Oriente sono stati gli ebrei. Erano gli estranei più evidenti. Non cristiani in un’Europa cristiana, non musulmani in un Medio Oriente islamico» (pp. 88-89).
La seconda parte del saggio (intitolata “Fratelli”) è una splendida e acuta analisi di testi veterotestamentari e delle loro riscritture secondo la tradizione ebraica. Sacks prende in considerazione alcuni personaggi minori, personaggi che nell’analisi narrativa sono considerati “antagonisti”: Agar schiava e concubina di Abramo, Ismaele fratellastro di Isacco, Esaù fratello di Giacobbe, Lea moglie non amata di Giacobbe. Osserva il rabbino inglese: «Per ciascuna narrazione [cioè per le vicende di Agar, Ismaele, Esaù e Lea] di apparente scelta-e-rifiuto, c’è una contronarrazione che rovescia il racconto in superficie e presenta un’immagine più generosa, con più sfumature, della solidarietà divina (e implicitamente umana). […] La contronarrazione non è un’interpretazione imposta da una sensibilità moderna o postmoderna. La prova è che il primo Midrash rabbinico percepì le sfumature e vi pose attenzione, malgrado il fatto che esse precludessero qualsiasi incontestabile lettura del testo del tipo bianco-e-nero, buono-contro-cattivo» (p. 138).
Lo studio delle narrazioni bibliche e delle contronarrazioni conduce Sacks alla conclusione che nella Bibbia ebraica Dio rigetta il rifiuto. «Dio sente la difficile condizione dei respinti. Il genio narrativo della Genesi è precisamente ciò che ci obbliga a sottoporci al rovesciamento dei ruoli. Non ci limitiamo a vedere il mondo attraverso gli occhi degli scelti. Ci immedesimiamo con Ismaele, Esaù, Lea, le persone dall’altra parte dell’equazione, e non possiamo fare a meno di immedesimarci con loro se ascoltiamo il testo con cuore aperto. Proviamo la loro sensazione di essere rifiutati. La Genesi, altrimenti parca nella sua prosa, fa di tutto per attirarci verso il loro mondo, la loro situazione, il loro senso di abbandono» (p. 184). Da qui la geniale intuizione: la Bibbia racconta il patto fra Dio e l’umanità, fra Dio e i figli di Giacobbe. In altre parole la Bibbia esprime il rigetto del rifiuto. Ismaele, Esaù, Lea e tutti gli altri non sono rifiutati, ma benedetti da Dio.
L’ultimo passo che Sacks fa compiere al suo lettore (“Il cuore aperto”) prende le mosse da un fatto di cronaca. Jobbik, altrimenti conosciuto come il Movimento per un’Ungheria Migliore, è un partito politico ungherese ultranazionalista, che è stato descritto come fascista, neonazista, razzista e antisemita, nonostante esso respinga queste etichette. Ha accusato gli ebrei di far parte di una cricca di interessi economici occidentali che cercano di controllare il mondo. Fino al 2012 uno dei suoi membri principali era un politico poco meno che trentenne, Csanad Szegedi, una stella nascente del movimento, ampiamente indicato come suo futuro leader. Fino a un giorno del 2012. Il giorno in cui Szegedi scoprì di essere ebreo. Dopo il terribile choc, quest’uomo ha cambiato interamente vita e oggi il suo interesse principale in quanto politico è difendere i diritti umani di tutti.
Sacks tira le conseguenze: «Ci sono momenti in cui soltanto una cosa ha il potere di sconfiggere il dualismo e la divisione del mondo in due, e cioè il rovesciamento dei ruoli. Per guarire dalla violenza potenziale verso l’Altro devo essere capace di immaginarmi come l’Altro. L’hutu in Rwanda deve sperimentare cosa vuole dire essere un tutsi. Il serbo deve immaginarsi come un croato o un musulmano. L’antisemita deve scoprire di essere un ebreo» (p. 193). Ecco che cosa fa la Bibbia ebraica: per mezzo dei suoi racconti obbliga a entrare nell’umanità dell’Altro: Ismaele, Agar, Esaù, Giuseppe e i fratelli, Lea e i suoi figli. I loro racconti costringono il lettore a entrare nella mentalità dei personaggi che non sono stati scelti, che sembrano essere lasciati fuori e allontanati. Per mezzo del racconto obbligano ad entrare nel rovesciamento dei ruoli. «Ci mostrano che umanità, luce e virtù non sono limitate alla nostra parte. Esse umanizzano l’Altro» (p. 194).
Il saggio, quasi al termine, ricorda la lettera di papa Francesco a Eugenio Scalfari (il 12 settembre 2013): «Mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e […] attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità». Commenta Sacks: «Questa è una dichiarazione in grado di cambiare il mondo. La Chiesa, in Occidente, ha cominciato a superare la sua rivalità fraterna con l’ebraismo. Se può accadere tra cristiani ed ebrei, può accadere anche tra loro e l’islam» (p. 275).
L’itinerario disegnato dal rabbino inglese non è solo un generico auspicio per trovare strade di pace e di riconciliazione. L’Autore fa emergere i meccanismi profondi dello scontro, traccia i passi del cammino per l’accoglienza dell’altro, saluta i segnali di speranza. In un tempo funestato da violenza e terrore, perpetrati in nome di Dio, queste pagine sono una boccata d’ossigeno. Esse, soprattutto, mostrano che nella Bibbia il problema è avvertito fortemente: tuttavia la traccia per affrontarlo non percorre unicamente piste antropologiche o sociologiche, ma torna al mistero di Dio e alla sua relazione con uomini e donne della storia.
Jonathan Sacks
Non nel nome di Dio
Confrontarsi con la violenza religiosa
Giuntina, Firenze 2017
pp. 320 – 18,00 euro