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Cavina: «Il martirio dei cristiani iracheni mi ha scosso»

Giuseppe Caffulli
14 giugno 2017
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Il martirio che la Chiesa sta vivendo in Iraq deve starci a cuore. Lo dice a chiare lettere mons. Francesco Cavina, vescovo di Carpi, che in pochi mesi ha già compiuto tre viaggi in quelle terre.


«Il mondo sembra ignorare il martirio che la chiesa in Iraq sta vivendo». Ne è convinto mons. Francesco Cavina, vescovo di Carpi (Modena), che nel marzo scorso ha compiuto un viaggio nel Kurdistan iracheno. «Ho ricevuto un dono molto più grande di quello che ho portato; dono che si esprime nella fede con cui questi fratelli vivono la loro condizione».

Originario di Faenza (dove nasce il 17 febbraio 1955) cresciuto a San Lorenzo di Lugo, nella diocesi di Imola, sacerdore dal 1980, dal 1996 lavora presso la Segreteria di Stato della Santa Sede,  Sezione per i rapporti con gli Stati. È vescovo di Carpi dal 2011.

Nelle ultime settimane si è tornati a parlare con insistenza di un’imminente liberazione di Mosul e della Piana di Ninive. Ecco la testimonianza di chi ha visitato l’area pochi mesi fa.

Eccellenza, nel marzo scorso lei è stato in Iraq per la terza volta. Ci può spiegare come nasce questa esperienza?
L’interesse nasce da due eventi che mi hanno toccato. L’avere letto del grande numero di cristiani uccisi e perseguitati negli anni passati. Si parla di circa 90 mila persone ogni anno. Questo dato mi ha profondamente scosso e interpellato. Da queste cifre emerge con evidenza che il cristianesimo, come ha denunciato Papa Francesco, è la religione più perseguitata nel mondo. Ho poi avvertito in più occasioni il grido dei vescovi iracheni che hanno lanciato il loro messaggio alla Chiesa: non abbandonateci, non lasciateci soli.
Questi due fatti mi hanno interpellato e mi sono chiesto: cosa può fare la mia diocesi? Io come vescovo e come cristiano cosa posso fare di fronte a questi fratelli che soffrono?
L’occasione del viaggio si è creata tramite l’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre. Nel corso di un incontro con il presidente italiano, dott. Alessandro Monteduro, che aveva chiesto di incontrarmi, ho domandato se l’Associazione operasse anche in Iraq. Da lì è nata l’opportunità di visitare i cristiani in Iraq, specie nella zona di Erbil.
Qualche mese dopo il colloquio, è avvenuto il primo viaggio, al quale ne sono seguiti altri due.

Che situazione ha trovato?
Rispetto al primo viaggio, durante l’ultima visita del marzo scorso, ho visto molti cambiamenti. Nel primo viaggio avevo avuto la possibilità di visitare i campi profughi di Erbil approntati in una maniera legata alla necessità di accogliere 120 mila persone: uomini, donne, anziani, malati e bambini che vivevano in centri di raccolta sovraffollati. Uno di questi mi ha particolarmente colpito per le condizioni in cui vivevano le persone. Più di una volta ho detto che i nostri canili sono posti migliori rispetto a quel campo profughi di Erbil…
Ho tenuto un diario del primo viaggio e l’ho descritto come un vero e proprio girone dell’inferno: gente stipata in container dentro hangar, senza luce… Un tanfo insopportabile. Nel buio abbiamo visto affiorare ombre, poi volti tristi… Ho avuto una stretta al cuore.
La nostra visita ha avuto un effetto positivo: quel campo è stato smantellato e ne è stato approntato un altro, capace di garantire condizioni migliori.
Nell’ultimo viaggio ho trovato una situazione migliore, dovuta anche al fatto che molti cristiani – almeno 30 mila – avevano lasciato l’Iraq. I campi, quindi, erano meno affollati e sebbene le condizioni di vita apparivano ancora umilianti per le persone, in essi sono state costruite strutture educative e sanitarie.
La visita del mese di marzo era motivata soprattutto dal desiderio di visitare la Piana di Ninive liberata dalle truppe dell’Isis e dalla quale proviene gran parte dei cristiani di Erbil. Mi sollecitava molto l’idea di vedere cos’era rimasto in quella zona. Ciò che abbiamo visto è stato terrificante. Sono rimaste solo rovine, causate non dalla guerra, ma dalla volontà di fare terra bruciata.

La presenza cristiana diminuisce sempre più in Iraq. Crede ci sia un disegno per cancellare l’identità cristiana di quelle terre?
C’è indubbiamente un piano per cancellare la presenza cristiana nel Paese. Da parte del cosiddetto Stato islamico è evidente. Se uno va nella Piana di Ninive, i villaggi cristiani sono stati svuotati e rasi al suolo. Conventi e chiese sono ridotti a cumuli di macerie o gravemente danneggiati. E là dove non è stato possibile distruggerli sono stati incendiati o sono stati posti al loro interno agenti chimici che impediscono il loro utilizzo. Per non parlare dei cimiteri, profanati e distrutti. Particolare l’accanimento contro le croci, le immagini sacre e le tombe dei sacerdoti.

In Occidente c’è la consapevolezza di cosa sta accadendo ai cristiani del Medio Oriente, in Iraq ma anche in Siria?
Ritengo che in Occidente ci sia una conoscenza della situazione politica di questi Paesi, che sono martoriati da violenze inaudite. Ma non credo che nel mondo occidentale, e forse anche nella Chiesa, ci sia la piena consapevolezza di quanto sta accadendo ai cristiani e di quanto stanno soffrendo. Sono talmente tante le forze politiche e le fazioni che si scontrano in quei territori che la questione cristiana, ammesso che se ne sappia qualcosa, sembra essere una delle tante faide per il potere.
In realtà non è proprio cosi. Un soldato curdo mi diceva: noi dai cristiani non abbiamo nulla da temere, amano tutti e cercano la concordia.
Perdere la componente cristiana in questi Paesi significa perdere una parte essenziale delle società mediorientali. I cristiani con il loro modo di vivere e di rapportarsi rappresentano uno stimolo per quelle società a far sì che i tanto proclamati diritti fondamentali della persona, tra cui il diritto alla libertà religiosa, non rimangano sulla carta, ma si traducano in rispetto, tolleranza, accoglienza, nella vita quotidiana. Inoltre, perdere la presenza cristiana significa cancellare una parte significativa della storia di quei Paesi, perché i cristiani sono i primi abitanti di quelle terre.

Lei ha celebrato nella cattedrale di Qaraqosh appena liberata. Cosa ha provato?
La chiesa di Qaraqosh è bella ora che è gravemente danneggiata e ferita. Figuriamoci come doveva essere prima. Ma la cosa commovente è stata che i cristiani da Erbil, appena è stata liberata Qaraqosh, non sono andati a vedere le loro case, ma si sono recati in questa chiesa dedicata all’Immacolata per ripararla, per quanto possibile, dalle violenze subite. Quasi un gesto di riparazione, che esprime la loro fede e la loro volontà di rimanere fedeli a Cristo. Ricordo che prima di partire per il primo viaggio ho chiesto ad alcuni sacerdoti se avevano qualche necessità impellente. La risposta mi ha spiazzato: «Ci porti i paramenti per poter celebrare dignitosamente l’eucaristia».
L’aver visto che i cristiani di Qaraqosh hanno voluto, come primo gesto, prendersi cura della loro chiesa, mi ha dato la dimensione della loro fede.
Poi, quando ho iniziato la celebrazione della messa, il Signore mi ha fatto la grazia di capire che questi nostri fratelli continuano storicamente la Passione di Cristo. E mi sono chiesto: «Dove trovano la forza per proseguire questa loro testimonianza?». La risposta è una sola: nell’eucaristia. E questo ci ricorda una volta di più il legame tra martirio ed eucaristia. Come diceva san Cipriano, chi non beve il sangue di Cristo non può versare il suo nel martirio.

Cosa può fare la comunità cristiana italiana per sostenere i cristiani dell’Iraq?
I cristiani vogliono ritornare nella loro terra e nelle loro città. Possono ritornare solo se vengono riscostruite le case. Le diverse Chiese cattoliche dell’Iraq si sono unite per portare avanti insieme questo progetto. Perché una diocesi, una parrocchia italiana, non si prende l’impegno di ricostruire una casa per una famiglia cristiana in Iraq? Si tratta di un impegno economico modesto, ma enorme a livello di comunione.
L’altro aiuto nasce dal portare a conoscenza la situazione dei cristiani iracheni. Non è certo pensabile che tutti ci si rechi in Iraq, ma è possibile invitare vescovi, sacerdoti, religiosi, famiglie in Italia, a venire nelle nostre comunità per raccontare la storia della loro Passione. Queste testimonianze sono in grado di toccare le coscienze e di interpellarci dal punto di vista della fede.

A livello politico, cosa può e deve fare l’Italia?
L’Italia ha una lunga tradizione di difesa della dignità della persona umana che nasce dalle sue radici cristiane. Credo che l’Italia potrebbe, nei rapporti bilaterali che intrattiene con questi Paesi del Medio Oriente, chiedere che i diritti delle persone siano accolti e rispettati per tutti. I cristiani sono cittadini a pieno titolo di quei Paesi. Non chiedono il diritto di esistere. Chiedono il diritto di essere rispettati in quanto cittadini che amano, lavorano e pregano per i loro Paesi.

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