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In Germania un crocevia di pace

Stefano Pasta
13 settembre 2017
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I leader religiosi devono dare un'anima alla globalizzazione. Un appello risuonato durante l’incontro interreligioso Strade di pace, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. L'impegno dei musulmani.


«È mancata l’unificazione spirituale del mondo, che non vuol dire omologazione o uniformità. Ma un grande e profondo movimento di dialogo spirituale e interreligioso che renda amici, benché diversi: nell’ambiente locale, come sulle scene del mondo». Così, durante l’incontro interreligioso Strade di Pace (10-12 settembre), il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi ha definito la sfida delle religioni di fronte a centinaia di leader (cristiani delle diverse confessioni, esponenti ebrei, musulmani sunniti e sciiti, buddisti e rappresentanti di altre religioni asiatiche), oltre che personalità della cultura e capi politici come la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente del Niger Mahamadou Issoufou.

Si tratta del 31.mo incontro nello «spirito di Assisi», dalla storica Giornata di preghiera per la pace promossa da Giovanni Paolo II nel 1986 e poi portata da Sant’Egidio in tanti Paesi. L’edizione di quest’anno s’è svolta a Münster e Osnabrück: in Germania perché ricorrono i 500 anni dalla Riforma di Martin Lutero e in queste due città perché qui è stata firmata la pace di Westfalia del 1648, che pose fine alla Guerra dei Trent’anni tra cattolici e protestanti, in un’epoca in cui tra cristiani ci si uccideva nel nome di Dio nel cuore dell’Europa.

Riccardi riprende la sua riflessione: «Lo smisurato gigante della globalizzazione ha bisogno di anima. Si sono mescolati popoli, realizzati comunicazioni veloci e un grande mercato, ma i mondi spirituali sono rimasti per lo più nei loro tradizionali orizzonti. Le religioni non hanno percepito come la globalizzazione sia anche un’avventura dello spirito e della fede». Dallo storico arriva l’invito a fare di più, citando il grande poeta musulmano del continente indiano, Muhamad Iqbal, che scriveva: «Abbi dunque l’ardire di crescere, osa! O Uomo di Dio! Non è stretto il regno dei cieli!». «Oggi – dice il fondatore di Sant’Egidio – non è stretto lo spazio per costruire la pace, ma ci vuole più audacia! Ciascun credente può essere un operatore di pace».

Le religioni possono essere acqua che spegne il fuoco della violenza, ma anche benzina che lo incendia. «Quanto è decisivo – sottolinea Riccardi – il ruolo dei leader religiosi nell’illuminare le menti!». Dai tre giorni di incontri (26 panel tematici) è arrivata anche una netta e unanime condanna al terrorismo, come si legge nell’Appello finale sottoscritto da tutti i partecipanti: «Mai la guerra è santa e chi uccide nel nome di Dio non ha cittadinanza né tra le religioni, né tra gli uomini. Il nostro è un no convinto al terrorismo, che nei mesi scorsi ha ferito troppe terre e ucciso troppi innocenti, nel Nord e nel Sud del mondo».

Particolarmente significative le prese di posizione venute dal mondo islamico. Domenica scorsa, nella cerimonia inaugurale dell’incontro, il grande Imam di Al Azhar, l’egiziano Ahmed Al-Tayyeb, aveva affermato che il terrorismo «non è figlio dell’Islam, è come un trovatello di genitori ignoti: è solo violenza». Il cardinale Orlando Beltran Quevedo, giunto da Mindanao, ovvero l’isola più grande delle Filippine, spiega l’importanza di parole simili: «Abu Sayyaf, che si è ora affiliato all’Isis, cerca di portare la bandiera nera del Califfato nell’Estremo Oriente. I principali leader di questo gruppo islamista hanno studiato al Cairo, ad Al Azhar, le parole del Grande Imam mostrano che, nel caso del terrorismo, la religione è presa in ostaggio da chi non ha diritto di parlare a suo nome».

Dall’Oman, Paese collocato in una zona calda (confina con lo Yemen, che per la guerra civile ha superato i 5mila morti) ma che ha avuto la capacità di mantenere posizioni dialoganti, Saud al-Siyabi del Direttorato del gran muftì sottolinea: «Due elementi uniscono Islam e cristianesimo: la fede nell’unico Dio e la ricerca della giustizia per i più deboli». Dal Golfo arriva anche Qays Al Mubarak, membro degli ulema sauditi e professore dell’Università Re Faisal, che condanna le conversioni forzate: «L’appartenenza all’Islam di un essere umano viene accettata solo se questi lo ha abbracciato consapevolmente e senza costrizione».

Dall’imam Muhammad Abdul Khabir Azad, che guida la moschea di Lahore in Pakistan, la quinta più grande del mondo, arriva la testimonianza di come la lotta alla strumentalizzazione della religione sia per molti leader islamici una pratica concreta. Ha raccontato in una delle tavole rotonde di Münster: «Quando i cristiani sono attaccati o una chiesa è distrutta, vado lì per aiutare le vittime e cerco di fermare le violenze. Lo faccio perché questo è l’insegnamento del mio Libro sacro, il Corano». Tra gli alleati di Azad, c’era Shahbaz Bhatti, il ministro cattolico per le Minoranze assassinato nel marzo 2011. Quando è stato ucciso, il fratello Paul ha preso il suo posto: «Insieme ad altri amici – racconta l’imam – abbiamo lanciato una campagna di incontri per portare lo spirito di Assisi in Pakistan. Noi leader religiosi non possiamo rimanere spettatori silenziosi davanti ai conflitti o alla strumentalizzazione della fede». Per il suo impegno, Muhammad Abdul Khabir Azad è stato minacciato più volte ed è stato sventato un attentato contro di lui: «Mi capita di avere paura, ma prego Allah e trovo la forza». A Lahore, nel 2013 fu attaccato il poverissimo quartiere cristiano di St. Joseph Colony: «In una lite tra due amici, dopo aver bevuto insieme, un musulmano ha accusato un cristiano di blasfemia. Dei fanatici islamici bruciarono 178 case dei cristiani, mentre la polizia non riusciva a fermarli». All’arrivo dell’imam, la folla inferocita pensava che li avrebbe guidati ad attaccare altri luoghi sacri: «Ho spiegato che quello che facevano era assolutamente contrario al Corano. Abbiamo pregato e poi ho chiesto a tutti di tornare a casa». Azad ha fatto interventi simili anche dopo l’attacco alle chiese di Yohanna Abad, di Gujra e Peshawar.

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