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Ci sono curdi e curdi

Fulvio Scaglione
19 ottobre 2017
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Sono spesso citati come un unico popolo in cerca di indipendenza, ma al loro interno ci sono diverse  correnti, che fanno richieste diverse.


È stupefacente la confusione che si fa di questi tempi parlando dei curdi. I quali, è vero, sono «il più grande popolo senza una patria»: 35 milioni di persone sparse tra Iraq, Siria, Iran e Turchia  alle quali le grandi potenze promisero uno Stato nel 1919 (Trattato di Versailles) e lo negarono nel 1923 (Trattato di Sèvres). Ma mica sono tutti uguali, soprattutto di questi tempi.

Per esempio, tra i curdi di Siria, che si sono organizzati intorno al cosiddetto Rojava, e quelli dell’Iraq, annidati nel Kurdistan, c’è un mare di differenze. Eccone alcune: quelli del Rojava chiedono di avere una vasta autonomia regionale dentro una Siria federale, anche governata da Bashar al-Assad; quelli del Kurdistan hanno appena votato in stile catalano per avere l’indipendenza da Baghdad. I curdi siriani hanno duramente combattuto contro lo Stato islamico fin dai tempi dell’assedio di Kobane e sono stati in prima fila nella riconquista di Raqqa; i curdi iracheni un po’ meno, visto anche che da Mosul si ritirarono assai velocemente all’apparire delle prime milizie del Califfato nel 2014, e che da Kirkuk nei giorni scorsi se ne sono andati ancor più in fretta appena l’esercito iracheno ha mostrato i muscoli. I curdi siriani, infine, immaginano il Rojava come un’entità autonoma governata con un particolare sistema di democrazia assembleare dal basso; i curdi iracheni sono controllati da due famiglie (i Talabani e i Barzani) che sono di fatto i proprietari del Kurdistan, dove il Parlamento non si riunisce più da anni.

Quindi bisogna prestare molta attenzione a chi parla di «curdi», perché c’è in giro la tendenza a metterli tutti insieme in un solo minestrone. Mentre è chiaro che i curdi siriani del Rojava sono, oggi, i curdi vincenti, mentre quelli del Kurdistan sono i perdenti. I primi godono dell’appoggio militare e politico degli Usa, che hanno invece sconfessato il referendum sull’indipendenza voluto a tutti i costi dal leader del Partito democratico del Kurdistan, Mas’ud Barzani. Il quale, a sua volta, ha fatto male i conti. Lui sperava che i Paesi occidentali fossero ancora, come sono stati per molti anni, grandi fan della spartizione dell’Iraq su linee etnico-religiose (un pezzo agli sciiti, un altro ai sunniti, un terzo ai curdi).

Non aveva capito che le priorità, soprattutto per gli Usa, sono cambiate. Ora per la Casa Bianca il problema è controllare la deriva della Turchia, impedire che la Russia si pappi tutto il piatto mediorientale, che l’Iran si allarghi troppo. A fronte di queste partite, le impazienze dei curdi iracheni sono poca cosa. Così Barzani è rimasto solo. Baghdad ha visto il semaforo verde e il mito dei peshmerga si è dissolto come neve al sole. Capita.

 


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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