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La lunga tomba di Daniele

Giampiero Sandionigi
3 gennaio 2018
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Uno dei “tesori” di Samarcanda, in Uzbekistan, è il mausoleo del profeta Daniele. Nel cuore dell’Asia musulmana.


Il ciuffo di crine di cavallo che penzola da un palo di legno segnala che qui è sepolto un uomo pio, considerato santo. Il luogo è silenzioso e la luce pomeridiana va affievolendosi con l’approssimarsi del tramonto. L’atmosfera si fa dolce e nella piccola moschea aperta su un lato, e realizzata nel 2013, alcuni fedeli pregano seduti sulle panche, in piccoli gruppi.

Siamo in terra d’Islam, nel cuore dell’Asia. Qui a Samarcanda, in Uzbekistan, il mausoleo del profeta Daniele è come un balcone sul corso del fiume Siob, che domina da un pendio del vasto colle su cui sorgeva Afrasiab, l’antenata di Samarcanda rasa al suolo dalle truppe di Gengis Khan nel 1220.

Nel XIV secolo Samarcanda era tornata grande. A darle lustro le imprese militari di Timur Lang (ovvero Timur “lo zoppo”, italianizzato con Tamerlano) che la scelse come propria capitale e la arricchì con i frutti dei saccheggi operati altrove e con l’opera delle migliori menti e braccia reclutate nei territori di conquista. La leggenda narra che in una delle sue campagne, Timur (che visse tra il 1336 e il 1405) si imbatté a Susa (in Persia) nella tomba del profeta Daniele, venerata da ebrei, cristiani e musulmani. L’emiro si impadronì delle spoglie, o almeno di alcune reliquie, e le trasferì a Samarcanda per ottenere la protezione dell’uomo di Dio sulla capitale del suo vasto regno. Che le cose siano andate veramente così non è affatto certo.

Di sicuro c’è il fatto che a Samarcanda il mausoleo di Daniele, pur essendo un edificio modesto sormontato da cinque piccole cupole, è da secoli meta di pellegrinaggio. A renderlo unico sono le dimensioni della pietra sepolcrale, lunga 18 metri. Una misura spropositata che ha due spiegazioni alternative: la più razionale dice che in questo modo si volle rendere difficile il compito di chi avesse voluto trafugare il corpo del profeta, custodito in chissà quale segmento della tomba. La spiegazione leggendaria dice, invece, che le ossa di Daniele continuavano ad allungarsi con il passare del tempo, obbligando così ad adeguare le dimensioni del sepolcro.

Per generazioni sono giunte qui, per chiedere la guarigione, le persone afflitte da mal di testa, insonnia o incubi. I pellegrini sofferenti compivano tre giri intorno alla tomba e poi chiedevano all’imam del santuario di recitare in arabo alcuni versetti del Corano e di fasciare loro la testa… Altri, in cerca di purificazione spirituale e fisica, trascorrevano 40 giorni e 40 notti in preghiera, isolandosi in piccole celle scavate nel fianco della collina per dedicarsi unicamente alla lettura del Corano.

Daniele è protagonista dell’omonimo libro dell’Antico Testamento ed è inserito tra i profeti nella Bibbia cristiana. In quella ebraica (Tanak) è invece tra gli altri scritti (Ketubim). Il libro è fatto risalire al periodo dell’esilio degli ebrei in Babilonia (VI-V sec. a.C.), ma è stato composto nel II secolo a.C., in periodo ellenistico, per sostenere la fede dei credenti durante le persecuzioni.

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