Da quelli che a volte, con un certo sussieguo, chiamiamo “tribali” ci giungono lezioni memorabili. Come nel caso di Sumaya Ahmed al-Hussam che ha messo pace tra due clan in lotta da anni.
Mentre analisti, editorialisti e media occidentali continuano a definire “tribali”, con un’incrinatura di sufficienza e superiorità culturale, le società del diwan, associando al tribalismo ogni sorta di nefandezza morale, nei luoghi dove il tribalismo esiste è stato possibile che una donna abbia messo fine a una faida che continuava da undici anni, senza accennare a potersi placare, almeno finché la risoluzione del conflitto era stata affidata a uomini.
Lei si chiama Sumaya Ahmed al-Hussam, ed è un’attivista yemenita che proviene da una ampia tribù del Golfo. Sumaya è riuscita ad essere l’ago della bilancia risolutivo tra la tribù dei Bani Badr e la Beit al-Qaidi, stanziati nella provincia di Hajjah, nel Nord dello Yemen.
La faida è durata undici anni e ha causato 60 morti e 130 feriti, comprese donne e bambini. In questi anni nessuno è riuscito a porvi fine, nonostante l’ingerenza del governo centrale, di attori locali, di altre tribù, sheiks e mediatori di varia natura. E le ragioni per cui ogni tipo di mediazione precedente fosse fallita risiede nel fatto che nessuno si sia peritato di andare a risolvere la questione del contendere alla radice.
Sumaya al-Hussam, invece, ha percorso tutte le strade di ogni delitto per risalire alla causa primaria e trovare delle soluzioni adeguate, al punto tale da portare ogni componente di entrambe le tribù al diwan della pace e fare firmare a tutti i responsabili un accordo definitivo, pubblico e che vale come documento legale a tutti gli effetti.
Come è stato possibile? Sumaya è nata per la mediazione. Ha fatto parte della Conferenza di dialogo nazionale in Yemen (istituita per traghettare il Paese dalla rivoluzione del 2011 a nuova costituzione e nuove elezioni) fino al 2013 e in quel contesto si era già occupata di questioni di genere, società civile e iniziative di pace. Per questa sua concreta attività, ha vinto il Queen of social responsability program 2017, istituito dalla corona saudita per tutte le donne del mondo arabo che si siano distinte nel servire la società civile, portando a compimento iniziative al femminile. Sumaya al Hussam, intervistata dalla Saudi Gazette, si è detta onorata e «felice di trasformare un sogno in realtà, seppure in piccola scala e nel mio Paese».
I media occidentali ed europei non hanno mai riportato la notizia, nonostante questa sia una conquista storica da parte di una donna politica e attivista nel Paese, lo Yemen, che sta attraversando uno dei conflitti più gravi del Medio Oriente e la più grave e urgente crisi umanitaria e sanitaria di questo secolo. Il perché, nonostante ci si sbracci per rivendicare i diritti delle donne, per lo più velate come Sumaya, non è dato saperlo.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.
Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).