(c.l./g.s.) – «Cristiani a musulmani, consolidiamo l’identità e il messaggio di Gerusalemme!». L’esortazione dell’ex primo ministro libanese Fouad Siniora è risuonata in Egitto durante la conferenza internazionale promossa dall’Università al-Azhar il 17 e 18 gennaio come risposta alla decisione resa nota il 6 dicembre scorso dal presidente statunitense Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.
L’appuntamento era stato fissato dall’importante istituzione accademica dell’islam sunnita a Nasr City, ad est del Cairo, con l’obiettivo di ravvivare l’attenzione regionale e internazionale verso Gerusalemme, mettendo in evidenza l’identità araba e palestinese della città e discutendo l’evoluzione della questione palestinese e le misure concrete da adottare.
Sotto il patrocinio del presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi, l’assemblea – internazionale e interreligiosa – ha raccolto insieme leader politici, rappresentanti laici, dignitari cristiani e musulmani provenienti da 86 Paesi, stando a quanto riferisce la testata digitale Ahramonline. Tra i religiosi cristiani che hanno aderito all’invito dello sceicco di al-Azhar, Ahmed el-Tayeb, c’erano il patriarca della Chiesa copta Tawadros II, il patriarca maronita, card. Bechara Rai, il catholicos armeno Aram I e il pastore Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Papa Francesco – impegnato nel viaggio apostolico in Cile e Perù – era rappresentato dal nunzio apostolico al Cairo, mons. Bruno Musarò, e dal proprio segretario particolare, mons. Yoannis Gaid, egiziano e di rito copto.
«Al-Azhar ha promosso questa conferenza su Gerusalemme per “suonare un campanello d’allarme” sulla necessità di contrastare le azioni oltraggiose di Israele riguardo a Gerusalemme e ai Territori palestinesi», ha dichiarato – secondo l’agenzia di stampa turca Anadolu – lo sceicco Ahmed el-Tayeb senza giri di parole. Lo studioso musulmano ha aggiunto che «l’ingiusta decisione del presidente americano Donald Trump dev’essere contrastata con un nuovo e serio approccio arabo e musulmano, incentrato sull’affermazione del carattere arabo di Gerusalemme e della sacralità dei luoghi santi musulmani e cristiani».
È per questa ragione che, nel discorso pronunciato il 17 gennaio, l’imam ha proposto di dichiarare il 2018 «anno di Gerusalemme», chiedendo che sia caratterizzato da iniziative e attività volte a promuovere la città e a mettere in luce la sua realtà attraverso, tra l’altro, un’azione culturale e mediatica continua. L’imam di al-Azhar ha chiesto inoltre di moltiplicare gli sforzi per sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa palestinese in generale e a quella di Gerusalemme in particolare. «Mentre i nostri sforzi sul piano dell’educazione non sanno più sensibilizzare a questa causa, l’occupazione sionista consacra l’ostilità verso i palestinesi nei suoi programmi di istruzione rivolti alle giovani generazioni», ha sostenuto.
Da parte sua, il patriarca Bechara Rai prima di giungere al Cairo aveva sottolineato che nessuno può tollerare la giudeizzazione della Città Santa. Il quotidiano L’Orient-Le Jour riporta queste sue parole: «Gerusalemme è una città aperta alle tre religioni (cristiana, ebraica e musulmana). Nessuno può accettare che le si dia un solo colore. Soprattutto oggi, quando questo colore è ebraico o giudaizzante», ha detto sulla scia di analoghe dichiarazioni del patriarca copto Tawadros II. Il porporato libanese ha chiesto «la preghiera comune; la solidarietà interreligiosa islamo-cristiana in tutto il mondo arabo; il sostegno alla presenza demografica palestinese grazie alla formazione di nuove famiglie; l’attaccamento alla proprietà dei beni immobiliari (in Terra Santa – ndr) e il congelamento di qualsiasi esodo o movimento emigratorio; il rafforzamento del sentimento di appartenenza e l’educazione all’amore per la Città Santa nelle famiglie, nelle scuole, nei luoghi di culto; un uso intelligente dei mass media e, infine, un’azione di lobbying tenace e a lungo termine».
Nel suo intervento il pastore Olav Fykse Tveit – in rappresentanza del Consiglio ecumenico delle Chiese, al quale aderiscono 348 Chiese ortodosse, anglicane e protestanti di tutto il mondo – ha osservato che «la pace può essere vera e duratura solo se fondata sulla giustizia».
«Gerusalemme – ha proseguito il pastore – è considerata santa e amata, in modo sincero e profondo, dai credenti di tutte e tre le fedi abramitiche: ebrei, cristiani e musulmani. Un amore e un attaccamento così profondi devono essere rispettati e affermati in qualunque soluzione si voglia trovare, se si vuole che sia praticabile». Un amore che a volte cede alla tendenza degli uomini ad affermare un possesso esclusivo, ha rimarcato Tveit. «La Storia – ha soggiunto – dimostra che il coinvolgimento delle tre religioni in questa regione non ha portato pace per tutti. Cosa che purtroppo è vera ancora oggi».
Per il segretario generale del Cec «il futuro di Gerusalemme deve essere un futuro condiviso. Non può essere esclusivo possesso di una fede contro le altre, o di un popolo contro gli altri. Gerusalemme è, e deve continuare ad essere, una città di tre religioni e due popoli». Il pastore sottolinea che «questa situazione rende ancora più essenziali ed urgenti nuove iniziative per realizzare una pace giusta per Gerusalemme. Se la città deve essere capitale per due popoli, che vivano insieme con uguali diritti, occorre una soluzione politica con idee concrete su come ciò possa realizzarsi. Se Gerusalemme dev’essere una capitale per due popoli e due Stati, entrambi gli Stati devono essere definiti, riconosciuti e stabiliti in modo concreto, realistico e riconosciuto internazionalmente, entro confini che abbiano il riconoscimento internazionale».
Papa Francesco (che visitò al-Azhar nell’aprile 2017) ha inviato una lettera all’imam Ahmed el-Tayeb che è stata letta in arabo dal suo inviato speciale, mons. Yoannis Gaid, durante la seduta inaugurale della Conferenza. Nella missiva – resa pubblica dalla sala stampa della Santa Sede – il Pontefice assicura: «Non mancherò di continuare a invocare Dio per la causa della pace, di una pace vera, reale». Il Papa ribadisce che Gerusalemme ha una «natura peculiare» e «una vocazione unica di luogo di pace» e sottolineato il suo valore universale. Auspicando «una ripresa del dialogo tra israeliani e palestinesi per una soluzione negoziata», Francesco ha ribadito la posizione classica della Santa Sede che considera necessario per Gerusalemme uno speciale statuto, internazionalmente garantito.
Dal canto suo, il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha dichiarato che «tutte le opzioni per far valere i diritti dei palestinesi su Gerusalemme sono sul tavolo». «Gerusalemme – ha rimarcato – è la porta della pace e della guerra. Trump deve scegliere». L’uomo politico ha ribadito di voler percorrere le strade della diplomazia, promettendo che «i palestinesi non opteranno per la violenza e il terrorismo». Dal suo punto di vista gli Stati Uniti hanno rinunciato al loro ruolo storico di mediatori e perciò il leader palestinese spiega di voler «trovare dei garanti più neutrali nel conflitto con l’occupazione». Ragion per cui Abbas ha rifiutato di incontrare il vicepresidente statunitense Mike Pence durante il suo viaggio di quattro giorni in Egitto, Giordania ed Israele programmato a partire dal 20 gennaio.
Secondo il quotidiano The Times of Israel Abu Mazen ha anche esortato i musulmani e i cristiani di tutto il mondo a difendere Gerusalemme e ha incoraggiato i fedeli di entrambe le religioni ad andare a Gerusalemme, sottolineando che il farlo non implica una «normalizzazione» con Israele. «Abbiamo bisogno del vostro aiuto e del vostro sostegno» ha ribadito l’anziano uomo politico.
Nel suo intervento durante la stessa Conferenza, il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit ha censurato il congelamento parziale dei finanziamenti statunitensi all’Agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza ai profughi palestinesi (Unrwa) annunciato dal governo di Washington ai primi di gennaio. L’Unrwa fu creata nel 1948 all’indomani della prima guerra arabo-israeliana scoppiata con la nascita del moderno Stato di Israele per assistere i 700 mila palestinesi che abbandonarono le loro case e i loro terreni cercando rifugio soprattutto nei Paesi arabi vicini. L’agenzia fornisce servizi sanitari, finanziari ed educativi a buona parte dei palestinesi e dei loro discendenti (in tutto 5 milioni di persone) che oggi vivono in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, in Libano e Giordania.