Due vicende personali, raccontate su un giornale israeliano, provano che anche nel cuore di un conflitto, cambiare si può. A patto di cercare l’umanità delle persone senza pregiudizi.
In un mondo di certezze granitiche com’è quello che circonda il conflitto israelo-palestinese, è possibile qualche volta cambiare idea? E se capita come avviene? Sono le domande che mi sono rimaste dentro ripensando a due storie che ho letto recentemente sul The Times of Israel, un giornale online israeliano non poi così incline al pacifismo.
La prima è la storia decisamente particolare di Shabtay Bendet, un ex colono diventato un’attivista di Peace Now. Detta così è ancora troppo poco. Il personaggio in questione, infatti, non era una semplice persona che abitava in un insediamento senza porsi troppe domande; Shabtay era un giovane dell’ala radicale dei Lubavitcher (uno dei volti più noti oggi dell’ebraismo ultra-ortodosso) nonché uno tra i fondatori di Rehelim, il primo degli outpost, cioè quegli insediamenti non autorizzati che sono illegali anche ai sensi della stessa legge israeliana. Fu lui con sua moglie e i suoi figli ad andare ad abitare nel 1996 su quella collina a sud di Nablus dove tutto era iniziato cinque anni prima con una shiva, una tenda funebre in memoria di una donna dell’insediamento di Shilo, colpita a morte in quel punto in un agguato mentre il suo pullman di attivisti stava transitando diretto a Tel Aviv per una manifestazione di protesta contro la partecipazione del governo israeliano alla Conferenza di Madrid.
Shabtay ci ha creduto sul serio negli insediamenti: nell’intervista racconta come giocassero al gatto e il topo con i militari israeliani che in teoria avrebbero avuto il compito di non far arrivare nuove roulotte a Rehelim. Finché un giorno qualcosa di quella vita ha cominciato a non convincerlo più. Ha iniziato a non frequentare più i Lubavitcher; poi c’è stato il periodo del ritiro da Gaza, che ha coinvolto anche Homesh, uno degli insediamenti dell’area di Nablus dove lui lavorava. Si è trasferito a Modiin, ha cominciato a fare il corrispondente dalla Cisgiordania per Walla, una testata israeliana. E, da giornalista, ad ascoltare anche le storie di chi sta dall’altra parte. Fino all’ultima svolta, l’anno scorso ad Amona – uno dei pochi outpost sgomberati dopo un lunghissimo tira e molla intorno a una sentenza della Corte Suprema: per lavoro Bendet si è trovato ad assistere alla scena dei militari israeliani che portavano via di peso suo figlio, abbarbicato con un gruppo di altri attivisti adolescenti sul tetto di una delle case da demolire («Io avevo cambiato idea, ma non potevo mica dirgli: tutto ciò che ti ho insegnato è sbagliato…»). A quel punto lo spirito dell’attivista ha avuto nuovamente il sopravvento, portando però Shabtay dall’altra parte della barricata. Così nello staff di Peace Now ora ha portato il suo bagaglio di conoscenze, preziosissimo nelle battaglie legali che l’organizzazione pacifista porta avanti contro i nuovi insediamenti. Proprio in questa veste qualche settimana fa Bendet si è ritrovato all’Amministrazione Civile (l’ente di governo israeliano in Cisgiordania) a discutere un ricorso su Rehelim con quelli che al tempo della fondazione erano stati i suoi compagni. «Alla fine ho perso, hanno dato ragione a loro – racconta -. Mi avevano anche offerto di andare insieme a bere qualcosa per festeggiare in nome dei vecchi tempi. Ho sorriso e ho rifiutato nella maniera più educata che potevo…». «Non ho rimorsi: quello che ho fatto ho fatto, non si può rimandare indietro la ruota del tempo – continua Bendet -. Non ho scelto questo lavoro per lavare “i peccati del passato”. Ma, certo, non posso dire che se riuscissi a fare qualcosa che aiuta un cambiamento, non sarei felice».
Leggendo questa storia di primo acchito ho pensato al classico caso della «mosca bianca». Poi però – sempre su The Times of Israel – mi sono imbattuto in un altro racconto. Questo lo riassumo nei suoi tratti essenziali: Yoav Peck è l’anima di una delle tante realtà che provano a mettere in comunicazione tra loro israeliani e palestinesi. Viene ricoverano in ospedale per un intervento e si trova come compagno di stanza un giovane colono che ha avuto un incidente in bicicletta. Impressione iniziale: non ho voglia di una settimana di discussioni sterili. Risultato finale: quindici giorni dopo le dimissioni dall’ospedale Yoav ha visto arrivare il giovane amico a uno dei suoi incontri e trascorrere l’intera giornata a discutere (ma anche a fare amicizia) con un coetaneo palestinese.
Anche nel cuore di un conflitto, cambiare si può. A patto di andare a cercare l’umanità delle persone ovunque. Senza pregiudizi. Forse proprio questa è la sfida più difficile per tutti.
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Perché “La Porta di Jaffa”
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.