Gli ultraortodossi in divisa vanno in tivù
Una nuova serie televisiva israeliana racconta l'esperienza dei giovani haredi sotto le armi. E guarda dentro le loro comunità d'origine, ostili alla scelta di arruolarsi.
Zucchetti di velluto nero, di cotone bianco o ricamati all’uncinetto. Ogni ramo dell’ebraismo, anche in tema di kippah, ha il suo preciso codice estetico, ma Kipat Barzel (ovvero «Zucchetti di ferro»), la nuova serie tivù israeliana scritta da Avner Bernheimer, parla soprattutto di divise militari. Il titolo strizza l’occhio all’Iron Dome (letteralmente «Cupola di ferro»), il sistema anti-missile che protegge Israele da attacchi esterni, e i sedici episodi di Kipat Barzel raccontano i primi mesi di addestramento di un’unità dell’esercito israeliano composta esclusivamente da giovani ultraortodossi.
Amram, Yaakov e Gur Aryeh sono i protagonisti principali, ognuno arrivato nei ranghi delle forze armate da settori diversi dell’ebraismo israeliano. Amram è l’haredi di città, che cerca di redimersi e in fondo in fondo ha una visione laica del mondo. Gur Aryeh arriva da Kiryat Arba, uno degli insediamenti vicini alla città di Hebron (nei Territori palestinesi). Mentre Yaakov, con i boccoli biondi attorno al volto e l’accento yiddish, si è arruolato con convinzione, nonostante l’opposizione fortissima della sua famiglia.
Nel secondo episodio di Kipat Barzel Amram e Yakov vengono attaccati da un gruppo di giovani haredi mentre sono in licenza per Shabbat. La scena è violenta, e mostra senza mezzi termini fino a che punto possono arrivare alcuni membri della comunità ultraortodossa per scoraggiare i propri giovani dall’arruolarsi. Ma anche tra gli haredi non c’è una posizione univoca, e se alcuni rabbini invitano i ragazzi a resistere e farsi arrestare piuttosto che servire nell’esercito, altri si stanno aprendo e capiscono che il servizio militare offrirà ai giovani opportunità di studio e di lavoro che non confliggono con la vita religiosa.
Kipat Barzel riflette queste differenze. Gli autori si sono preparati a lungo, incontrando ex soldati ultraortodossi e chiedendo a due religiosi di leggere la sceneggiatura per assicurarsi che la realtà delle comunità ortodosse fosse rappresentata in modo corretto. Anche gli attori hanno fatto la propria parte di ricerca, e uno di loro ha trascorso qualche giorno assieme all’unità haredi dell’esercito.
Ex giornalista che prima di approdare alla scrittura per la televisione ha lavorato per i quotidiani Haaretz e Maariv, Bernheim è diventato famoso soprattuto per il film Yossi e Jagger, che racconta la relazione fra due soldati alla scoperta della propria omosessualità. Con un accostamento provocatorio, Berhneim sostiene che da qualche anno «gli haredi sono i nuovi gay». L’autore parla dal palco della Cinemateque di Gerusalemme – dove domenica scorsa la serie è stata presentata nella sua versione sottotitolata in inglese – e spiega meglio il suo pensiero con un filo di ironia: secondo lui la curiosità che gli israeliani laici nutrono per i religiosi assomiglia a quella che anni fa esisteva nei confronti della comunità omosessuale, un mondo a sé, con i suoi codici e i suoi rituali.
Kipat Barzel non è la prima serie che racconta la vita degli haredi alle prese con la modernità, ma è il primo prodotto televisivo dedicato alla presenza dei religiosi nell’esercito.
L’idea per la serie è arrivata da Raya Shuster, Yoav Shoten-Goshen e Ayelet Gundar-Goshen, tre studenti della scuola di cinema Sam Spiegel di Gerusalemme, che hanno chiesto a Bernheim di essere il loro tutor per il progetto. Quando gli autori hanno sottoposto l’idea alla casa di produzione Keshet, Yair Lapid e il suo partito Yesh Atid stavano spingendo per l’approvazione della legge che avrebbe costretto gli haredi ad arruolarsi. Da lì in poi la legge ha subito scossoni, tentativi di abolizione e ancora oggi è al centro di proteste di massa da parte dei religiosi, che (tra tante altre cose) hanno messo a rischio la tenuta del governo di Benjamin Netanyahu.
Il numero di giovani haredi che decidono di arruolarsi è in aumento, ma la serie mostra anche che l’esercito non sa ancora bene come gestire la loro presenza. E dalle storie di Amram, Yaakov e Gur Aryeh si intravvede il bisogno di un sostegno nei confronti di ragazzi lasciati soli dalle famiglie e dalle comunità di origine contrarie alle loro scelte.
Perché S(h)uq
Suq/Shuq. Due lingue – arabo ed ebraico – e praticamente una parola sola per dire “mercato”. Per molti aspetti la vita in Israele/Palestina è fatta di separazioni ed attriti, e negli ultimi anni è cresciuta la distanza fra la popolazione araba ed ebraica. Ma il quotidiano è fluido e anche sorprendente. Come a Gerusalemme i dettagli architettonici di stili diversi convivono da sempre uno vicino all’altro, anche le persone in questa terra non smettono mai di condividere del tutto. E il mercato è uno dei luoghi in cui questo è più evidente. Ebrei, musulmani, stranieri, immigrati, pellegrini. Ci si ritrova lì: per comprare, mangiare, vendere, ballare, e anche pregare. Questo blog vuole essere uno spazio in cui incrociare le storie, persone e iniziative che possono aiutarci a cogliere qualcosa in più su come va la vita da queste parti, al di là della politica e della paura.
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Federica Sasso è una giornalista e vive a Gerusalemme. La sua prima redazione è stata il Diario della Settimana, poi da New York ha collaborato con testate come Il Secolo XIX, l’Espresso, Altreconomia e con la Radio della Svizzera Italiana. Da Gerusalemme scrive per media italiani e produce audio reportages per la radio tedesca Deutsche Welle. Per Detour.com ha co-prodotto documentari sonori che consentono di esplorare Roma accompagnati dalle voci di chi la conosce bene.