Monsignor Atallah Hanna è l’unico arcivescovo palestinese del Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme. Il 13 maggio ha invitato a pregare per la Città Santa. L’appello, lanciato sul sito cristiano di attualità in lingua araba abouna.org, non ha annullato il trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata degli Usa, avvenuto il 14 maggio, e che le Chiese cristiane della Terra Santa in questi mesi non hanno certamente incoraggiato. Ma si deve constatare che «oggi i cristiani di Gerusalemme, tutte le Chiese e i palestinesi sono uniti da un unico sentimento: la tristezza», come ha dichiarato alla Radio Vaticana mons. Marcuzzo, vicario del Patriarcato latino per Gerusalemme e la Palestina. «Siamo angosciati perché la giornata di oggi non ci conduce alla pace, ma esattamente nella direzione opposta e non c’è speranza di giungere a una tregua».
L’escalation di violenza si è avuta lungo il confine di Gaza e ha provocato la morte di oltre 50 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano. I prossimi giorni rischiano di vedere aumentare le violenze, mentre inizia il Ramadan e la situazione si fa imprevedibile.
Donald Trump ha mantenuto il suo impegno, applicando la legge votata nel 1995 dal Congresso e che fino a oggi i suoi predecessori avevano bloccato, per non mettere a repentaglio il dialogo israelo-palestinese. Il trasferimento dell’ambasciata realizza la promessa fatta in campagna elettorale di riconoscere in modo unilaterale Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.
I capi delle Chiese cristiane della Terra Santa hanno contestato questa decisione poiché si oppongono a ogni rivendicazione esclusiva sulla città, sia di carattere politico sia religioso. Difendono il principio di una città che appartiene a tutti e nella quale i Luoghi Santi devono restare accessibili a ognuno. La comunità internazionale, compreso il Vaticano, ha espresso la sua disapprovazione rispetto alla posizione degli Usa, che in questo modo hanno messo fine a un accordo di fatto che vigeva a livello internazionale per cui le ambasciate non sarebbero state trasferite a Gerusalemme fino al giorno di un accordo fra israeliani e palestinesi.
Gerusalemme è piena di bandiere israeliane e statunitensi e di manifesti che recitano Trump Make Israel Great Again o Trump is a Friend of Zion. Il sontuoso ricevimento di inaugurazione ha visto la presenza di 800 invitati, tra cui il segretario al Tesoro amercano, Steve Mnuchin, e la figlia del presidente Ivanka, con il marito, il consigliere Jared Kushner. Trump è intervenuto con un messaggio video registrato. La nuova ambasciata si trova nel quartiere dell’Arnona, nella sede dell’ex consolato generale degli Usa, in attesa della costruzione di una nuova sede definitiva.
L’euforia in Israele è cresciuta negli ultimi giorni: in migliaia a Gerusalemme hanno ricordato la conquista di Gerusalemme Est nel 1967, mentre il 14 maggio coincide anche con il 70° anniversario della fondazione dello Stato. Questa data coincide, da parte palestinese, con le commemorazioni della Nakba, (catastrofe, in arabo), la sconfitta del 1948 e la cacciata di oltre 700 mila palestinesi dalle loro case. Le iniziative israeliane e statunitensi non fanno altro che esacerbare le tensioni tra i palestinesi che non solo a Gaza hanno ripreso a protestare in massa sul confine, ma anche in Cisgiordania, da Hebron a Betlemme, sono scesi nelle strade.
Dal 30 marzo a oggi le vittime a Gaza erano state già 54, persone uccise dall’esercito israeliano durante le «marce del ritorno». Migliaia di manifestanti hanno espresso l’intenzione di forzare le barriere di sicurezza al confine anche nei prossimi giorni, e a rischio della vita. Intanto Tsahal ha annunciato di avere raddoppiato gli effettivi e la polizia istraeliana ha mobilitato un migliaio di uomini per proteggere la nuova ambasciata e i dintorni. Secondo Amos Yadlin, già responsabile dei servizi di sicurezza di Israele, il Paese «non ha conosciuto un mese di maggio così pericoloso dal 1967». E l’intero contesto regionale raramente è stato così instabile.