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«I miei primi passi da medico tra i bambini di Betlemme»

Giampiero Sandionigi
30 maggio 2018
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«I miei primi passi da medico tra i bambini di Betlemme»
Veronica, prima da destra, con alcune laureande palestinesi in Medicina al Caritas Baby Hospital di Betlemme.

L'esperienza di Veronica, una giovane italiana che ha trascorso alcuni mesi al Caritas Baby Hospital di Betlemme come tirocinante. A stretto contatto con la realtà palestinese.


Accade a molti, se non a tutti, di metter piede per la prima volta in Terra Santa e poi portarsi dentro la voglia, forse il bisogno, di tornare.

Nell’estate 2012 successe anche a Veronica Capelli, giovane lecchese che si recò alcuni giorni laggiù con un gruppo di amici dell’oratorio. «Tre luoghi – ricorda – mi colpirono in modo particolare: il lago di Tiberiade, il Getsemani, e… il Caritas Baby Hospital, l’ospedale pediatrico di Betlemme».

Di acqua ne è passata sotto i ponti da quel viaggio di sei anni fa. Nel frattempo Veronica, oggi 26enne, si è laureata in Medicina all’Università di Pavia e ha continuato a coltivare il suo amore per la lettura (anche dei classici greci e latini accostati ai tempi del liceo), il teatro e la musica. In più ha scoperto quella che lei chiama «la più pericolosa delle passioni»: i viaggi.

Conseguita l’abilitazione e in attesa dell’esame per l’accesso alla specialità, Veronica ha potuto svolgere un tirocinio di tre mesi in un Paese in via di sviluppo, grazie a una borsa di studio messa a disposizione dal Fondo per la Cooperazione e la Conoscenza disponibile presso il suo ateneo. Così, tra febbraio e maggio, è tornata a Betlemme, proprio al Caritas Baby Hospital che tanto l’aveva colpita «per la risposta estremamente concreta che quel luogo dà alla sofferenza dei piccoli».

Dal 1952 l’ospedale, nato dall’iniziativa del sacerdote svizzero Ernst Schnydrig, accoglie i piccoli pazienti palestinesi e le loro madri, senza curarsi dell’appartenenza religiosa, della disponibilità economica e dell’estrazione sociale. Ogni anno passano dal suo poliambulatorio migliaia di bambini: nel 2017 ne sono stati visitati oltre 46 mila, mentre quasi 5 mila si sono avvicendati negli 82 posti letto dei suoi reparti, accuditi da un personale per metà cristiano e per metà musulmano (i medici sono quasi tutti uomini, eccezion fatta per il direttore sanitario), che coopera in piena armonia.

La giovane dottoressa lombarda, rientrata in Italia pochi giorni fa, traccia un bilancio professionale e umano dell’esperienza appena conclusa. «Per me – dice – è stata davvero una straordinaria opportunità di formazione. L’ospedale è ben strutturato e il reparto di terapia intensiva ha attrezzature d’avanguardia. Mi sono inserita nei ritmi quotidiani: il duplice giro dei medici nei due reparti di pediatria e in quello di terapia intensiva. Ho seguito in ambulatorio i diversi specialisti: il neurologo, l’ortopedico, il cardiologo, la pneumologa, il radiologo. Infine ho avuto modo di prender parte a qualcuno dei corsi di aggiornamento, davvero interessanti, che periodicamente vengono organizzati».

La consuetudine tra il Caritas Baby Hospital e i medici italiani non è nuova. Con l’Università di Pavia c’è una collaborazione avviata da anni e che coinvolge in prima persona il professor Gian Battista Parigi, chirurgo pediatrico. Di recente, spiega la dottoressa Capelli, si è deciso di rilanciare il progetto di telemedicina, nato qualche tempo fa con lo scopo di confrontarsi, tra sanitari pavesi e palestinesi, sui casi clinici particolarmente complessi. Purtroppo le difficoltà non mancano, sia sul versante tecnico, nella realizzazione delle videoconferenze, sia su quello logistico: gli intralci al libero movimento dei palestinesi nei Territori occupati non agevola l’organizzazione di riunioni e momenti comuni, soprattutto quando la tensione aumenta, come è accaduto in aprile e maggio con le manifestazioni organizzate nella Striscia di Gaza.

Anche sul piano delle relazioni interpersonali il soggiorno betlemmita di Veronica è stato denso di stimoli. La dottoressa lecchese ha abitato con altri dieci giovani volontari italiani – coordinati dall’ong ATS pro Terra Sancta – in un’ala della Società antoniana, struttura principalmente adibita a casa di riposo per anziani, che sorge non lontano dall’ospedale.

La dottoressa ha potuto osservare il contesto sociale palestinese da una prospettiva particolare che è quella delle donne e giovani madri. Si è convinta che la cultura araba sia piena di contraddizioni, sulle quali è bene non affrettare giudizi definitivi. «Ogni giorno – rammenta – in ospedale incontri una vicenda nuova che contraddice quello che ti è sembrato di comprendere fino a quel punto».

I piccoli pazienti dell’ospedale e le loro mamme provengono spesso da realtà non facili quali i campi profughi che circondano Betlemme o piccoli villaggi isolati. «Sotto il profilo sanitario – osserva la neolaureata – si incontrano per lo più infezioni alle vie respiratorie e gastroenteriti, ma non solo. Non ci sono bimbi che muoiono di fame, ma la malnutrizione è diffusa: spesso i piccoli vengono su a pita e falafel (il tipico pane piatto e le polpettine di legumi – ndr). Occorre far capire alle mamme che è bene variare. Il più delle volte la prole è numerosa. Dato che in una famiglia la questione dell’onore è fondamentale, capita che si decida di tirare la cinghia per anni in vista di una festa di fidanzamento in pompa magna. Ma così si fa mancare il cibo necessario ai figli, costretti a fare a meno di carne, pesce, frutta e verdura».

«È comunque bello – riconosce Veronica – entrare in relazione con queste donne. Si avverte che qualcosa sta cambiando, ad esempio l’approccio verso la mortalità infantile. Prima si avevano 12 figli e si metteva in conto che due o tre sarebbero morti prematuramente. Non è raro che i palestinesi, anche a causa delle difficoltà di movimento, si sposino tra cugini e secondi cugini, così non mancano le malattie genetiche incurabili. Mi ha colpito vedere con quanta cura e affetto le mamme di questi bimbi, comunque desiderati, li assistano in ospedale, mentre a casa ci sono gli altri figli che le aspettano».

Vi sono aspetti che la dottoressa fatica a comprendere: la figura della donna ancora piuttosto squalificata e subordinata a quella del maschio o del marito, oppure i matrimoni precoci. «Qualcuno – chiosa – mi dice che i matrimoni combinati non esistono più, poi però parlo con una mia collega palestinese che si laurea a giugno in Medicina che mi confessa di essere disperata: “Ho sempre detto a mio padre che prima di sposarmi avrei voluto finire gli studi. Ora che termino non so più cosa dirgli…”». Dopodiché non si può non constatare che parecchie musulmane non indossano il velo e si avverte una certa apertura, soprattutto tra le generazioni più giovani.

Poi c’è uno spiccato senso dell’ospitalità. Racconta Veronica: «Il primo aprile scorso ho celebrato la festa di Pasqua a casa di una collega e amica musulmana che ha voluto preparare la cena per me con i piatti tipici di casa sua, benché per lei non fosse una festività particolare. Per me è stata forse la Pasqua più bella di sempre».

Vivendo al fianco dei colleghi in ospedale la dottoressa ha potuto testimoniare anche le traversie del tran tran quotidiano: «È difficile anche solo organizzare uscite insieme. I giovani palestinesi non possono muoversi liberamente: andare a Gerusalemme (che è a pochi chilometri da Betlemme) per loro è impossibile se non arriva il permesso degli israeliani. C’è un muro che non è solo fisico. Quando arrivano a un posto di blocco israeliano i palestinesi non sanno mai se potranno passare. I controlli a volte sono umilianti e loro toccano con mano che non sono cittadini. Talvolta li senti dire che sarebbero contenti di essere trattati da cittadini di serie B, con diritti inferiori a quelli degli israeliani, ma pur sempre riconosciuti e chiari. I 30enni e 40enni che ho ascoltato sono disamorati, delusi, fatalisti. I più giovani sono meno rassegnati e più dinamici; chiedono i permessi; immaginano di studiare all’estero; pensano di andarsene».

«Da cattolica – riconosce la dottoressa – per me stare a Betlemme, dove tutto è iniziato, è stata un’esperienza speciale. Fare Pasqua a Gerusalemme qualcosa di unico. Si ha proprio l’idea che quanto narrato dai Vangeli sia successo davvero e che sia successo qui. Se è successo qui un senso ci deve essere, anche se non ti abbandona la sensazione che il conflitto israelo-palestinese non si risolverà mai».

Ora che è rientrata a casa, Veronica si è ributtata sui libri per preparare il test di ammissione alla specialità. «Speriamo che il governo dia maggiore attenzione ai giovani medici, alla scuola e alla sanità. Il mio sogno sarebbe specializzarmi in Pediatria e poi forse ripartire per un’esperienza di cooperazione internazionale. Se non fossi andata in Palestina, avrei bussato alle porte di Medici con l’Africa – Cuamm: sento tanto parlare di mal d’Africa e mi piacerebbe scoprire cos’è. Con la sua povertà generalizzata, l’Africa è certamente diversa dalla Cisgiordania dove a pesare è la discriminazione. Comunque vada, ho un animo nomade e non so se resterò in Italia. Ma vorrei che partire fosse una mia libera scelta e non una necessità, com’è per tanti miei coetanei».

 


 

Partire per crescere

L’Università di Pavia ha istituito il Fondo per la Cooperazione e la Conoscenza nel 2009, non solo per consentire a studenti di Paesi in via di sviluppo di studiare un anno presso l’ateneo pavese, ma anche per erogare borse di studio ai propri studenti che vogliano svolgere alcuni mesi di studio o ricerca in un Paese in via di sviluppo.

Grazie alle borse messe a disposizione dal Fondo, sono partiti fino ad oggi 128 giovani (la possibilità è offerta anche agli stranieri) iscritti a un corso di laurea dell’ateneo, oppure dottorandi e specializzandi.

I 21 partiti durante l’anno accademico 2017-2018 si sono recati in questi Paesi: Argentina, Benin, Bolivia, Brasile, Camerun, Cina, Colombia, Costa d’Avorio, Costa Rica, Giordania, India, Russia, Senegal, Laos, Niger, Territori Palestinesi, Togo, Tunisia. Per finanziare la loro esperienza sono state messe a disposizione 84 mensilità da 1.000 euro ciascuna. Ogni studente ha potuto richiederne un minimo di 3 e un massimo di 5. I candidati e le candidate hanno dovuto presentare a un’apposita Commissione paritetica un progetto di ricerca o tirocinio elaborato in proprio, d’intesa con università, ong, enti pubblici o privati esteri disponibili ad accoglierli.

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