Sulla prima pagina del quotidiano The Jordan Times di lunedì 11 giugno non a caso l’immagine campeggiava in evidenza: attorno ad un grande tavolo circolare, i rappresentanti di Arabia Saudita, Kuwait e Emirati arabi uniti, di fronte a re Abdallah di Giordania. L’occasione? Il vertice della Mecca che ha deliberato un maxi-pacchetto di aiuti pari a 2,5 miliardi di dollari al Regno hashemita. Le decisioni intraprese «in virtù dei legami fraterni che legano i quattro Stati», prevedono una serie di misure che vanno da interventi diretti nella Banca centrale giordana, garanzie presso la Banca mondiale, sostegno alla spesa corrente e finanziamenti per progetti di sviluppo.
Il vertice si è tenuto nello stesso giro di ore in cui Federica Mogherini, alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera, faceva tappa ad Amman per manifestare il sostegno dell’Europa alla Giordania e per annunciare un nuovo finanziamento di 20 milioni di euro per progetti di protezione sociale (che si aggiungono al miliardo di euro già versato dal 2016).
Ma perché Unione Europea, Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati arabi si sono affrettati a correre, con sorprendente solerzia, in soccorso a re Abdallah di Giordania?
Per capirne la ragione, dobbiamo fare qualche passo indietro. Dal 30 maggio la Giordania è scossa da manifestazioni contro le misure di carattere fiscale ed economico che il Regno hashemita sta adottando su indicazione del Fondo monetario internazionale (Fmi). Le proteste hanno indotto il sovrano a cambiare il governo incaricando un nuovo primo ministro.
Povera quasi del tutto di risorse naturali, la Giordania ha un tasso di disoccupazione che sfiora il 20 per cento, e un quinto della popolazione sotto la soglia della povertà. Il debito pubblico è pari al 95 per cento del prodotto interno lordo. Circa il 70 per cento dei giordani ha meno di 30 anni e soprattutto i giovani (specialmente le donne) pagano lo scotto della mancanza di lavoro e di prospettive. Una vera e propria bomba sociale pronta a deflagrare.
Non si comprende la gravità della crisi della Giordania (e la solerzia con cui ora si corre al suo capezzale) se non si considera che il Regno hashemita ha fatto fin qui da baluardo e assorbito (insieme al Libano), gran parte dell’impatto delle tragedie mediorientali. Basta dare un occhio alle statistiche dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Acnur/Unhcr): al 30 marzo 2018 erano 745.865 i rifugiati presenti nel Paese, l’82 per cento residenti fuori dai campi, il resto (133.132 ospitati in tre strutture). La provenienza dei rifugiati fa capire quale sia stato il ruolo svolto finora: 660 mila profughi sono siriani, 66 mila iracheni, oltre 10 mila yemeniti, 4 mila sudanesi, poco meno di un migliaio somali. Se si sommano i profughi delle ultime ondate a quelli delle guerre precedenti, i numeri restituiscono un quadro drammatico: la Giordania, poco più di 10 milioni di abitanti, ospita 2 milioni e 700 mila stranieri.
L’assistenza ai profughi è garantita, con molte difficoltà, dall’Acnur attraverso una rete complessa di servizi (medici, legali, economici). Ma è indubbio il fatto che questa massa di persone abbia provocato un grave impatto sul welfare, sul mercato del lavoro interno, sul mercato delle case, sull’istruzione, sull’ordine pubblico e la sicurezza. In un Paese dove l’acqua è più preziosa del petrolio, il crescente consumo d’acqua costringe da una parte al razionamento idrico ad uso civile, dall’altro mette a rischio le colture agricole.
Insomma, la Giordania, se non si riusciranno a trovare misure adeguate (non solo economiche) per gestire una crisi che minaccia di diventare strutturale, rischia di diventare una nuova, preoccupante miccia d’instabilità per il Medio Oriente, e il punto di partenza di una nuova ondata di disperati. Un rischio che né l’Unione Europea (dove la questione dei migranti è sempre più terreno di lotta politica) né i confinanti Paesi della Penisola arabica vorrebbero evidentemente correre.