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Una storia di naufraghi

Giuseppe Caffulli
20 giugno 2018
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Una storia di naufraghi
Una scena del film "La casa sul mare"

Ambientato poco fuori Marsiglia, il film La casa sul mare induce a riflettere su temi importanti. La vita dei protagonisti, europei in crisi, ritrova luce nell'incontro con tre bambini immigrati.


C’è un film francese che, di questi tempi, contemporaneamente fa bene e fa male vedere. Fa bene perché costringe a riflettere su temi importanti della vita: le relazioni, la malattia, la vecchiaia, la morte, i sogni infranti… Fa male perché questi stessi argomenti, se non trovano un superamento in un orizzonte «altro», alimentano una disperazione che non ha sbocchi.

La storia si svolge in un villaggio della Provenza, abitato da una piccola comunità che un tempo si è costruita la casa al mare con il duro lavoro e come coronamento di un benessere conquistato. Richiamati dalla malattia del padre, tre fratelli si ritrovano in quella che è stata la casa della loro gioventù, il luogo dei sogni ma anche dei lutti non elaborati.

Attorno a loro un piccolo mondo di anziani ormai privi di slanci, che vivono nell’indigenza (in un borgo marino che è ora ambito dal turismo d’élite). Un fratello prosegue, come in una stanca liturgia, l’attività del padre (una piccola brasserie), l’altro è un intellettuale di sinistra ormai espulso dal mondo del lavoro, alle prese con i turbamenti di una fidanzata che potrebbe essere sua figlia. Poi c’è la sorella, attrice, segnata dalla tragedia della morte in mare della figlioletta (di cui attribuisce la colpa al padre) e alle prese con un inconsolabile male di vivere.

Sullo sfondo l’andirivieni ossessivo della gendarmeria francese, che pattuglia coste e scogliere per scongiurare sbarchi clandestini.

Proprio il ritrovamento da parte dei due fratelli di tre bambini non accompagnati scampati a un naufragio e nascosti da giorni nel fitto della macchia mediterranea, darà nuovo senso agli abitanti della casa sul mare… Prima indecisi sul da farsi, infine decideranno di accogliere e nascondere quei piccoli clandestini.

Il film di Robert Guédiguian è girato nel borghetto di Méjean, poco fuori Marsiglia (ma potrebbe essere ovunque) ed è la fotografia impietosa della nostra vecchia società europea, sazia e disperata. C’è sicuramente uno sguardo nostalgico su un modello di società che sembra essere stato ormai «rottamato», un vivere ispirato alla solidarietà, all’amicizia, alla difesa dei diritti. Il tutto però senza paternalismi.

Accanto alle vite smarrite di questo angolo di Francia, si dipanano le storie emblematiche dei piccoli migranti (uno è sepolto nel bosco). I quali, nonostante la tragedia dalla quale provengono (il riferimento probabile è alla Siria) sono portatori di futuro. Per quel microcosmo di uomini e donne che stentano a fare i conti con antiche ruggini, sbagli, fallimenti e illusioni, non sono un problema, ma un’opportunità di rinascita.

Ecco, questo è il messaggio politico del film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2017 e uscito nelle sale italiane lo scorso aprile: siamo sicuri che i migranti non possano essere il vero antidoto al torpore delle nostre società moderne, distrutte da consumismo e perdita d’ideali?

Non a caso la pellicola termina con l’inaspettato risveglio dell’anziano padre, richiamato alla vita dalle voci dei piccoli migranti che, come in una preghiera, invocano il nome del fratellino che, nella traversata, non ce l’ha fatta. L’eco di quel nome gli riporta alla mente la voce della nipotina morta annegata in mare. E gli restituisce un barlume di vita.

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