In Medio Oriente si torna a parlare del piano di pace con il quale Donald Trump vorrebbe mettere il suo sigillo sul conflitto in Terra Santa. I contenuti sembrano definiti. Per i palestinesi cattive notizie.
Risorge dalle ceneri come l’araba fenice: in queste ore in Medio Oriente si fa di nuovo un gran parlare del piano di pace di Donald Trump, l’«affare della vita» attraverso il quale il presidente magnate – dopo essere stato il primo inquilino della Casa Bianca a incontrare ufficialmente un leader nord-coreano – vorrebbe mettere il suo sigillo anche sul conflitto israelo-palestinese. Jared Kushner – il genero plenipotenziario sull’argomento – è in viaggio nelle capitali arabe insieme a Jason Greenblatt, l’inviato degli Stati Uniti per il Medio Oriente. E ieri sera, 25 giugno, c’è stato anche un incontro alla Casa Bianca tra il presidente Trump e re Abdallah di Giordania.
L’intento è abbastanza chiaro: dato per assorbito il colpo del trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata americana in Israele, Trump vorrebbe rilanciare sul fronte della cosiddetta pace regionale, finalizzando la rete di rapporti intessuta in questi anni dietro le quinte tra Neyanyahu e il principe saudita Mohammed bin Salman. Per arrivarci il giovane al Saud ha però bisogno di poter sbandierare un risultato e quindi ecco riaffiorare il piano di Kushner, che si dice potrebbe essere reso pubblico a giorni (anche se in realtà ormai lo si ripete da mesi).
I contorni sono ormai abbastanza chiari: il piano prevedrebbe la creazione di uno Stato palestinese di fatto nelle aree A e B dei Territori, quelle cioè già attualmente sotto il controllo palestinese, con l’aggiunta di alcuni quartieri arabi esterni di Gerusalemme Est che verrebbero di fatto separati dal resto della città. Di proprio i sauditi e i loro alleati del Golfo ci metterebbero una pioggia di denaro per rivitalizzare l’economia palestinese. E una di queste aree di sviluppo economico sarebbe prevista anche nel Sinai, a beneficio di Gaza d’intesa con l’Egitto.
Il problema di questo piano è molto semplice: è inaccettabile per qualsiasi leadership palestinese, che non potrebbe non vederlo come una pace al ribasso, con la rinuncia a molte delle storiche rivendicazioni portate sul tavolo dei negoziati (prima fra tutte il riconoscimento di Gerusalemme Est come capitale). Anche per questo Kushner in queste ore ha rilasciato un’intervista al quotidiano arabo al Quds con l’intento di scavalcare Abu Mazen, accusandolo di non collaborare. Per quanto poco popolare sia ormai l’anziano presidente dell’Autorità nazionale palestinese, è ben difficile che a Ramallah il genero di Trump oggi trovi delle sponde. In più gli americani hanno anche un altro problema: re Abdallah di Giordania non è affatto entusiasta del ruolo che i sauditi stanno giocando in questo partita. Certo, oggi che Riyadh è generosamente corsa in soccorso di Amman alle prese con una grave crisi finanziaria, non può dirlo ad alta voce. Ma il terrore di Abdallah è che gli al Saud vogliano cogliere l’occasione per entrare nella partita di al Aqsa (la moschea che sovrasta Gerusalemme vecchia – ndr), scavalcando il ruolo di Custode dei Luoghi sacri di Gerusalemme storicamente riconosciuto alla corona hashemita.
Ce n’è a sufficienza per capire che – se è quando verrà ufficializzato – il piano di pace di Trump difficilmente farà molta strada. Però un effetto lo sta comunque portando con sé: le trovate fantasiose sembrano un virus contagioso oggi in Medio Oriente. Una ad esempio è l’iniziativa di Vladimir Putin che – dopo aver ospitato Mohammed bin Salman a Mosca in occasione dell’apertura dei Mondiali di calcio – adesso ha messo nella lista degli invitati per la finalissima tanto Abu Mazen quanto Netanyahu. Il primo, in cerca di sponde, ha già risposto che ci sarà; il premier israeliano invece per ora ha messo davanti le questioni di sicurezza. Difficile comunque immaginare che l’eventuale vertice della pace del pallone possa andare molto oltre qualche scatto ad effetto a beneficio dei fotografi.
L’altro tocco di fantasia viene infine dal ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, che per risolvere l’annoso problema del blocco di Gaza starebbe progettando la costruzione di un porto. Solo che – piccolo particolare – questa struttura verrebbe realizzata a Cipro. In pratica i container con le merci destinate alla Striscia verrebbero controllate meticolosamente da Israele sull’isola del Mediterraneo; per poi essere trasferite in loco da piccoli ferry-boat che farebbero la spola tra Gaza e Cipro. Ancora una volta Israele dunque sembrerebbe pensare a una soluzione per Gaza senza fare i conti con Gaza. Funzionerà?
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Perché “La Porta di Jaffa”
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.