Dieci anni fa a Baghdad un giornalista iracheno lanciò i suoi mocassini contro il presidente statunitense George W. Bush (un gesto pagato caro). A distanza di anni, c'è chi lo considera ancora un eroe.
Questa è la strana storia di due uomini che non si sono mai incontrati e di un poema ispirato a un gesto di per sé poco gentile, come lo potrebbe essere il lancio di una scarpa in testa a qualcuno. A compiere il gesto fu, nell’ormai lontano 2008, il 39enne iracheno Muntadhar al-Zaidi, giornalista e candidato, non eletto, al parlamento iracheno nelle politiche del 12 maggio scorso, con una campagna elettorale «contro gli oppressori» e per «spazzare via la corruzione». Il bersaglio scelto dieci anni fa dal lanciatore Zaidi fu l’allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush.
Muntadhar, durante un’ormai storica conferenza stampa, gli lanciò i suoi mocassini e, non soddisfatto, gli urlò anche: «Cane, questo è l’arrivederci del popolo iracheno! Da parte delle vedove, dagli orfani e dei nostri morti ammazzati».
Le guardie della sicurezza lo atterrarono in pochi secondi e Zaidi fu condannato a tre anni di carcere, scontandone nove mesi (torture comprese, dalle scariche elettriche al waterboarding), prima di essere trasferito a Beirut, in Libano. Il clamoroso gesto di protesta rese Zaidi famosissimo nel mondo arabo. L’etichetta Baydan, che fabbricava lo stesso tipo di mocassini lanciati contro Bush, ribattezzò il modello ByeBye Bush. La scarpa fu persino onorata con una statua di bronzo in un orfanotrofio iracheno.
In un editoriale del 2009, al-Zaidi respingeva la narrativa che ne aveva fatto un eroe, dicendo: «Non sono un eroe. Ma ho un punto di vista, una posizione. Mi sono sentito umiliato nel vedere il mio Paese umiliato; bruciata la mia Baghdad, il mio popolo ucciso. Ho attraversato la mia terra in fiamme e ho visto con i miei occhi il dolore delle vittime; ho sentito con le mie stesse orecchie le urla degli orfani. Un sentimento di vergogna mi ossessionava perché ero impotente. Così reagii e compii quel gesto».
Ancora oggi al-Zaidi continua a rispedire ai mittenti l’aura di eroismo che lo avvolge, ma non ha saputo che un docente dell’università di Jena, il professore Manuel Vogel, direttore del dipartimento di Teologia, gli ha addirittura dedicato un poema in cui scrive, riferendosi ironicamente a Bush: Wie du das schaffst/die bestenselektion («Come hai potuto farlo/hai scelto il meglio»). E poi continua: Die leute ziehn/den hut/vor dir/ich werfe/meinen/schuh («Le persone si tolgono il cappello davanti a te/ma io ti lancio una scarpa»). Anche per Vogel, al-Zaidi è un eroe. Ci ha detto: «Avrei voluto essere iracheno solo per una volta, soltanto per votarlo alle ultime elezioni». Chissà se con un voto in più, quello del professore Vogel, al-Zaidi ce l’avrebbe anche fatta a coronare il suo sogno iracheno, contro cui non c’è mocassino che basti: spazzare via la corruzione.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.
Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).