Si intitola Visitors 2018 ed è un’installazione d’arte visiva virtuale presentata nell’ala Ruth Youth del Museo d’Israele a Gerusalemme. La sua ambizione è di far attraversare idealmente i muri che separano le famiglie israeliane da quelle palestinesi, che vivono poco distanti le une dalle altre, ma hanno rare occasioni di incontro.
Visitors 2018 è incastonata nella mostra I to Eye che esplora le relazioni umane. L’opera si propone come un’esperienza di prossimità tra la società israeliana e quella palestinese, un tempo più interconnesse che oggi, quando a separarle c’è un alto muro di cemento che impedisce alla maggior parte dei palestinesi di entrare in Israele e agli israeliani di accedere alle città nei Territori palestinesi della Cisgiordania. Senza contare gli altri impedimenti d’ordine socio-politico che vanno dalle due rivolte palestinesi (l’intifada degli anni Ottanta/Novanta e quella degli anni Duemila) al continuo espandersi degli insediamenti israeliani, per tacere del blocco di Gaza. Anche nelle città a maggioranza araba in Israele le interazioni tra vicini sono poco numerose.
Considerato tutto questo, Daniel Landau (45 anni) ha fatto installare nel Museo di Israele la sua opera, che consiste nella ricostruzione di due abitazioni (una israeliana e una palestinese) in un unico ambiente, che un asse centrale divide in parti uguali. A sinistra, sul lato israeliano, è riprodotto un interno ebraico, dotato di impianto hi-fi, di numerosi libri e di oggetti di culto, oltre a un ritratto del rebbe di Lubavitch (1902-1994) alle pareti. A destra c’è l’ambiente palestinese arredato con mobili, tappeti e accessori di stile mediorientale, narghilè.
Per ridare vita a questi due spaccati, l’artista israeliano ha filmato e intervistato due famiglie – una musulmana e una ebraica – che non si sono mai incontrate: i Sabatin (palestinesi) e gli Avidan-Levi (israeliani). Nella vita reale le loro case distano poche decine di metri, spiega Daniel Landau al quotidiano The Jerusalem Post. Ma «per certi versi – sottolinea – non potrebbero essere più distanti».
Con la sua installazione Landau invita i visitatori della mostra a soggiornare virtualmente presso queste due famiglie, assolutamente reali. Con l’aiuto di speciali visori per la realtà virtuale, il pubblico può godere di una visione a 360 gradi dell’interno dei due focolari domestici e osservare scene di vita di ognuna delle due famiglie, in soggiorno come in cucina. Il visitatore può ascoltare le testimonianze personali e i reciproci punti di vista. Il tutto registrato e riproposto dalle telecamere dell’artista.
Daniel Landau, che è ricercatore al centro interdisciplinare di Herzliya (Tel Aviv), vorrebbe aiutare a superare le errate percezioni e gli stereotipi delle due parti. L’installazione Visitor 2018, collocata com’è sulla linea di confine tra reale e virtuale, «non è una simmetria tra le due parti». Al contrario, spiega Landau, «crea una sorta di ponte ed è un invito a scoprire quelle due famiglie nel modo il più diretto possibile, grazie alle opportunità offerte dalla realtà virtuale».
È una forma d’arte da cogliere nel senso etimologico di «tecnica». Grazie alla quale «è possibile superare gli ostacoli socioculturali e le barriere emotive e politiche», commenta il giornale israeliano. Per l’artista «la realtà virtuale è un nuovo media che offre un contesto di presenza e di empatia». Ed è alla luce delle similitudini e delle differenze che il visitatore può emergere da questa esperienza virtuale con la coscienza «che esiste una possibilità di colmare i fossati».
Ospite della trasmissione radiofonica canadese As It Happens, Daniel Landau ha raccontato che numerosi visitatori della sua installazione gli hanno confidato: «Sa, non ho mai messo piede in una casa araba». L’artista si rallegra del fatto che «attraverso la realtà virtuale molti sono stati in grado di cogliere ogni sfumatura e interazione. E di intuire, con una certa emozione, i sapori della vita quotidiana d’una famiglia normale».
E quindi, obiettivo raggiunto? Sì e no. Sì nella misura in cui il progetto evidenzia le similitudini tra la cultura araba e quella ebraica. No perché l’andare oltre la virtualità è oggi quasi impossibile per le difficoltà poste dalla realtà sul terreno. Quanto ai punti in comune, Landau ha spiegato a vari media stranieri che in particolare gli israeliani mizrahim – vale a dire coloro che discendono da comunità ebraiche stanziante in vari Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa – non faticano a individuarli. «Culturalmente, essi si sentono molto vicini alle culture arabe con tutte le loro componenti: cucina, musica, linguaggio, mentalità». Al quotidiano britannico The Guardian Landau ha raccontato che alcuni emergono dall’installazione virtuale con sentimenti e ricordi nostalgici: «Questo è il modo in cui mio nonno decorava casa sua… Così è come parlava dei suoi figli…».
Una riprova del fatto che il reale è più forte del virtuale: se molti israeliani hanno già potuto e potranno ancora visitare la mostra, di qui al 20 maggio 2019 quando chiuderà i battenti, alla maggior parte dei palestinesi una simile possibilità (ammettendo che fossero interessati) resta preclusa. Sottolinea Daniel Landau che persino la famiglia Sabatin, che pure vive a non più di 10 chilometri dal Museo di Israele, per potervi metter piede ha dovuto superare ostacoli burocratici e munirsi di autorizzazioni speciali che le consentissero di varcare i posti di blocco israeliani che separano i due popoli.
—
Clicca qui per un video su Visitors 2018