Tre anni e più di guerra, tre colloqui di pace senza alcun risultato, di cui l’ultimo a Ginevra (ai primi del settembre scorso) con un convitato di pietra, ossia i ribelli Houthi, che non si sono mai presentati, ritenendo inaccettabili le condizioni poste sul tavolo della trattativa. La guerra in Yemen è ad uno stallo preoccupante, dove le poche notizie provenienti dal Paese sembrano incoraggianti (diminuzione dei bombardamenti sul Nord, scontri tra milizie quasi inesistenti a Sud) ma somigliano alla quiete prima della tempesta, una tempesta che dovrà necessariamente arrivare, sia nell’interesse delle potenze regionali coinvolte, che del governo centrale guidato da Mansour Hadi, che, soprattutto, dei due grandi attori che hanno ormai in mano le chiavi di accesso al Paese, gli Emirati Arabi Uniti a Sud e l’Arabia Saudita a Nord.
Ma l’arma di questa guerra rimane l’assedio ai confini, una vecchia tecnica che conoscevano bene gli antenati europei delle guerre dei Trent’anni, e, prima ancora, gli antichi romani, gli ottomani, i babilonesi e i persiani. Una tecnica crudele, che cuoce a fuoco lento il nemico e dovrebbe costringerlo, prima o poi, alla resa incondizionata. Così, in particolare, il Nord del Paese, anche a causa dell’atteggiamento intransigente dei ribelli Houthi che non lasciano margine ad alcuna trattativa con la coalizione internazionale e con il governo centrale, è stretto in una morsa di fame ed emergenza sanitaria, con aiuti umanitari che arrivano centellinati sulla (ex) capitale Sana’a via cargo aereo dalle Nazioni Unite e via nave su Hodeida, la città peraltro da cui – secondo gli strateghi militari del Regno saudita – dovranno essere intensificati gli scontri per penetrare nel Nord e arrivare a riconquistare Sana’a. Qui, in particolare, come anche nel governatorato di Hajja, le famiglie più povere sfamano i loro figli utilizzando panetti di foglie e altri ortaggi, lavati con acqua infetta.
E sempre qui si registra il tasso più alto di mortalità infantile, denutrizione, morte per fame, colera e difterite, al punto tale che – ha detto Lise Grande, coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite per lo Yemen – se la guerra non finirà entro i prossimi tre mesi, il Paese si troverà ad affrontare la peggiore carestia al mondo negli ultimi cento anni, con 13 milioni di persone ormai non solo in necessità di cibo e aiuti umanitari, ma prossime alla morte per fame.
Le statistiche menzionano già 10 mila vittime tra i civili in tre anni, morte nei modi più diversi: saltate sulle mine, colpite da mortai, uccise negli scontri a fuoco e, soprattutto, nei bombardamenti. Nella roccaforte dei ribelli Houthi a Nord, sono infatti più frequenti i bombardamenti della coalizione che, invero, secondo lo Yemen Data Project, non sono mai finiti, anzi superano i 16 mila episodi in tre anni, attestandosi su una media di 416 ogni mese, con picchi notevoli nel 2016, e obiettivi civili numerosi ormai più di quelli militari (depositi di acqua, fabbriche, bus e automobili, camion, mercati, scuole, moschee).
E, intanto, all’ennesimo allarme internazionale, si aggiunge il rischio di tifoni al Sud che stanno colpendo i Paesi che si affacciano sullo stretto di Baab al Mandab, come l’Oman, isole comprese, e di cui è previsto il picco sulla terraferma a fine settimana; in più c’è il terremoto politico nel governo: il presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi ha appena licenziato il suo primo ministro, accusando Ahmed bin Dagher della crisi economica che attanaglia il Paese, secondo una dichiarazione rilasciata dall’agenzia di stampa locale e governativa Saba.
La motivazione riposa sul fatto che Bin Dagher è entrato in contrasto con i separatisti meridionali e con gli emiratini, principali attori nel Sud e alleati dei separatisti. Il suo licenziamento, si legge nella nota di agenzia, «è stato il risultato di un comportamento negligente del governo negli ultimi tempi rispetto all’economia e ai servizi amministrativi». Di certo c’è che la valuta yemenita, il riyal, ha perso più della metà del suo valore rispetto al dollaro dall’inizio della guerra. Le autorità locali hanno cercato di aumentare la liquidità lo scorso anno stampando moneta, ma ora il suo valore è decisamente colato a picco.
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