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Il Rojava senza amici

Fulvio Scaglione
7 gennaio 2019
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Il dado è tratto: gli americani ritirano il proprio contingente dalla Siria settentrionale. Saluti e baci agli (ex) alleati curdi, che ora restano da soli a difendere il loro embrione di Stato autonomo.


Qualche settimana fa, il presidente statunitense Donald Trump annunciava l’intenzione di ritirare dalla Siria i circa 2 mila soldati americani che in questi anni hanno sostenuto i curdi e le milizie arabe negli scontri contro l’Isis. Trump non ha indicato i tempi del ritiro, che non sarà rapidissimo. Ma il solo annuncio è bastato a far prendere una piega nuova agli eventi sul campo.

Senza fare troppi giri di parole, quello che i curdi del Rojava (e le Unità di protezione popolare che sono, di fatto, il suo esercito) si sono trovati ad affrontare è stato l’ennesimo tradimento occidentale. I curdi contavano sull’appoggio almeno politico degli Stati Uniti per proteggere l’esperimento di autonomia e autogoverno del Rojava sia dall’ostilità della Turchia sia dalle mire della Siria di Bashar al-Assad che, con il sostegno della Russia, ora punta con decisione a recuperare il controllo sulla totalità del territorio siriano. Quel presunto appoggio politico, invece, è venuto meno su tutti i fronti. La Turchia ha potuto attaccare impunemente, e per due volte, il Rojava, che Erdoğan considera null’altro che un’estensione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) che la Turchia (e pure l’Europa, anche se una recente sentenza della Corte di Giustizia belga ha stabilito il contrario) considera un movimento terroristico. E ora, con l’annuncio del ritiro, gli Usa hanno ovviamente dato un grosso impulso anche alle ambizioni russo-siriane.

Intendiamoci: come abbiamo già avuto modo di dire, Trump ha solide ragioni di realpolitik dalla sua parte. Una vera influenza sul Medio Oriente può esercitarla molto più attraverso l’asse con Israele e Arabia Saudita (che infatti rafforza senza sosta) che non con duemila soldati e un pò di milizie curde impegnate a difendere un progetto politico nobile ma, per come vanno (purtroppo) le cose nella regione, ingenuo e fragile. È quella contro l’Iran la vera “battaglia” degli Usa e il Rojava può attendere.

Ragioni o no, i curdi si sono sentiti traditi. E si sono trovati improvvisamente soli. Quindi hanno reagito nell’unico modo possibile. Con la Turchia non c’è trattativa possibile, Erdoğan accetterebbe solo la totale sottomissione. Quindi i curdi si sono rivolti alla Siria che, dopo tutto, è tecnicamente ancora la loro patria. Hanno invitato l’esercito siriano a entrare nella città di Manbij per presidiarla. Poi hanno aperto trattative ufficiali con la Siria con la mediazione della Russia.

Così, per l’ennesima volta in questi ultimi anni, è il Cremlino a occupare il centro. Vladimir Putin dovrà parlare con Erdoğan, furioso per quella che, a dispetto dei confini e del diritto internazionale, considera un’intromissione della Siria in un affare “interno” della Turchia, ovvero la lotta contro il (presunto) terrorismo curdo. E parlare anche con Bashar al-Assad, ora tentato di restituire il “favore” alla Turchia che per anni ha aiutato e armato i terroristi di Al Nusra, che hanno fiancheggiato le sue truppe anche nell’attacco contro il Rojava. I curdi, a loro volta, chiedono che la Siria adotti una struttura federale e conceda al Rojava un’ampia autonomia. Il governo siriano ha risposto picche ma siamo solo agli inizi di una trattativa che sarà lunga e complicata.

Comunque vada a finire, i curdi questa partita se la devono giocare da soli, senza appoggi. Con una certezza: il sogno che li ha accompagnati per tutti questi anni di guerra, e cioè di poter essere “terzi” rispetto ad Assad e ai suoi nemici, per combattere solo l’islamismo jihadista e garantirsi così un ruolo così non compromesso nel dopoguerra, è andato in frantumi.

 


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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