
Che parli di Gaza o d'Ucraina, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump riesce a sparigliare le carte in tavola creando reazioni contrastanti. Gli analisti studiano la sua condotta, e c'è chi lo assimila a un wrestler. Ecco perché.
Quale giudizio dare della politica estera americana poco più di un mese e mezzo dall’insediamento di Donald Trump per il secondo mandato alla Casa Bianca come presidente degli Stati Uniti, avvenuto il 20 gennaio scorso? Nelle cancellerie di mezzo mondo, sembra aver prevalso la sorpresa, l’imbarazzo, perfino l’irritazione, sia sul versante della guerra Russia-Ucraina, sia a proposito delle questioni mediorientali. Di fronte a quelle che sembrano boutade, si resta increduli. Possibile che la più grande democrazia del mondo dia, attraverso le sue istituzioni (e quella del presidente ne è la più alta espressione), uno spettacolo tanto deplorevole?
Tra i tentativi di lettura più originali, c’è certamente quello di Brian Katulis, analista presso il Middle East Institute (Mei) di Washington, una delle istituzioni più antiche e blasonate, attiva fin dal 1946.
Katulis in un lungo articolo intitolato Messaggi e azioni contrastanti di Trump sul fronte arabo-israeliano (pubblicato nel sito del Mei il 26 febbraio scorso) spiega come, per capire la politica estera del neopresidente e il suo approccio comunicativo, serva guardare al wrestling professionistico, «una forma popolare di teatro di performance atletiche con esiti programmati» e al suo modo di proporsi al pubblico.
«L’uso del troll power (il deliberato prendersi gioco degli avversari per provocare una reazione fuori dagli schemi – ndr) da parte di Trump per accaparrarsi i riflettori o per cercare di fare leva su nemici e amici è leggendario, anche se i risultati ottenuti nelle relazioni internazionali sono altalenanti. Nel primo mandato di Trump come presidente, egli ha detto molte cose che non si sono avverate in politica estera: il Messico non ha pagato per il muro non completamente costruito al confine meridionale dell’America; l’Arabia Saudita non ha finanziato la ricostruzione di parti della Siria e l’America non ha preso il petrolio dell’Iraq o della Siria. Visti gli zig-zag nelle dichiarazioni di Trump, cosa che lui stesso ha riconosciuto e che una volta ha descritto come “trama”, potrebbe essere difficile distinguere tra ciò che il presidente degli Stati Uniti dice e ciò che la sua squadra sta effettivamente facendo in politica estera».
Nel wrestling professionistico, prosegue l’analista del Mei, c’è una parola che si applica a ciò che Trump sta facendo: «È kayfabe, il tacito accordo tra i lottatori professionisti e i loro fan di fingere che eventi, storie, personaggi, ecc. di wrestling palesemente inscenati siano autentici. Trump è in fondo un personaggio da reality show, e questo è il modo più diretto per spiegare l’ultimo video su Gaza e l’accozzaglia spesso confusa di dichiarazioni sul Medio Oriente che pronuncia, ma che spesso non sono in linea con le azioni della sua squadra».
In sostanza, i sostenitori di Trump, il suo staff e i fiancheggiatori che il presidente ha nei media e nei think tank spiegano le dichiarazioni iperboliche e irrealistiche come un modo per cercare di spingere gli altri ad agire. Il vertice del Cairo del 4 marzo, nel quale alcuni Paesi arabi hanno provato ad offrire un contraltare alla proposta di Trump su Gaza, andrebbe letto così.
«In questo contesto complicato – conclude Katulis – la kayfabe mediorientale di Trump potrebbe intrattenere e stuzzicare, e potrebbe persino produrre risultati a cui nessuno aveva pensato prima. Ma come nel wrestling professionistico, in assenza di un’adeguata pianificazione e di precauzioni, l’esibizione potrebbe finire per ferire qualcuno».
Se oltreoceano si cerca una chiave di lettura decisamente fuori dagli schemi per comprendere l’azione a sua volta anticonvenzionale della Casa Bianca, cosa pensano gli analisti britannici?
Dalla prestigiosa Chatham House di Londra Ahmed Aboudouh punta piuttosto l’attenzione sugli esiti di una politica scomposta e irrituale. «Il presidente Donald Trump – scrive in un pezzo intitolato Tattica negoziale o meno, il piano di Trump per Gaza ha già causato danni irreparabili, pubblicato il 7 febbraio – ha dato il via a una nuova realtà in Medio Oriente, indipendentemente da ciò che accadrà in seguito». A proposito della irricevibile proposta di dislocare o sfollare la popolazione di Gaza dalla Striscia, Aboudouh rimarca: «Se l’intervento eclatante di Trump sia o meno una tattica di negoziazione, come sostengono alcuni che cercano una logica nella proposta, essa ha già fallito. Il fragile processo di pace e il prestigio degli Stati Uniti sono stati enormemente danneggiati. In pratica, il piano ostacola ogni obiettivo politico che l’amministrazione Trump sostiene di avere in Medio Oriente». Lo sfollamento dei palestinesi da Gaza porrebbe fine certamente al progetto dei due Stati, e apre di fatto la via al riconoscimento della sovranità israeliana sulla Cisgiordania, come richiesto da gran parte dell’estrema destra israeliana.
Per Egitto e Giordania potrebbe trattarsi addirittura di un’imminente catastrofe. «L’Egitto e la Giordania – prosegue Ahmed Aboudouh – sono minacciati dalla proposta di Trump: lo spostamento dei palestinesi nei loro Paesi destabilizzerebbe i loro regimi, alimenterebbe l’estremismo e trasformerebbe i loro territori in piattaforme di lancio per gli attacchi delle frange terroristiche palestinesi contro Israele. I loro trattati di pace con Israele diverrebbero carta straccia». Oltre a questo, la presenza degli Usa nella Striscia rinnoverebbe la legittimità dei proxies dell’Iran in tutta la regione, se non addirittura scatenerebbe una guerra regionale. Ecco per quale ragione l’Arabia Saudita ha tenuto a precisare la sua posizione circa la necessità di arrivare a uno Stato palestinese. Cinque ministri degli Esteri arabi, tra cui quelli di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar, hanno biasimato l’ipotesi di spostare i palestinesi da Gaza in una lettera all’amministrazione Trump.
A proposito di troll power, ci si è cimentato anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu, spingendosi a chiedere di creare uno Stato palestinese in Arabia Saudita perché «hanno un sacco di terra laggiù».
Come nel wrestling, la speranza è che sia tutta una messa in scena. Ma durante la performance, tra muscoli esibiti e piroette, capita a volte che ci si faccia molto ma molto male.
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