Attivista, drammaturga con opere in ebraico e in arabo, regista teatrale, autrice di due romanzi. La scrittrice israeliana Orna Akad, 63 anni, incarna con la sua stessa vita il sogno della convivenza fra arabi ed ebrei in Israele. Figlia di un magistrato e di un’agronoma ebrei bulgari che hanno fatto l’aliyah nel 1953, Orna è nata nel 1962 a Rehovot, a meno di un’ora da Tel Aviv. Dopo alcuni anni a Londra per studiare recitazione, è rientrata in Israele e nel 1986 ha cominciato a frequentare il movimento giovanile Sadaka-Reut, nato nel 1983 per promuovere una società condivisa basata sull’uguaglianza tra ebrei ed arabi, la solidarietà e la giustizia. È lì che ha conosciuto il biologo palestinese Fouad Akad, originario del villaggio di Jatt, nel distretto di Haifa, uno di quelli che in Israele vengono chiamati «arabi del 1948». I due si sono sposati nel 1993 a Cipro, poiché lo Stato non riconosce i matrimoni fra persone di fedi diverse, ma riconosce le nozze civili celebrate all’estero. «Non è stato facile essere una coppia mista. Eppure mio marito ed io abbiamo lottato tutta la vita contro il razzismo, ed oggi più che mai, in questa fase storica così buia, sentiamo il dovere di continuare a farlo» racconta Orna a Terrasanta.net.
«Quando conobbi mio marito e cominciai a visitare il suo villaggio e il distretto a maggioranza araba non distante da Haifa rimasi scioccata dalla grande disparità anche solo urbanistica rispetto alle città di noi ebrei israeliani»
Orna e Fouad vivono a Tel Aviv, la città più cosmopolita di Israele, proprio per sfuggire ai giudizi di chi non vede di buon occhio le unioni di ebrei e arabi e l’attivismo di cittadini israeliani che non si rassegnano alla guerra. «Quando conobbi mio marito e cominciai a visitare il suo villaggio e il distretto a maggioranza araba non distante da Haifa – racconta – rimasi scioccata dalla grande disparità anche solo urbanistica rispetto alle città di noi ebrei israeliani: in questi paesini non c’era neppure un parco giochi per bambini».
Così è nata la scelta di dedicare il proprio lavoro ai diritti delle minoranze, allo sguardo sull’altro, alla relazione con il diverso. «La società ebraica israeliana in generale – spiega la drammaturga – è molto ignorante riguardo alle condizioni nelle aree a maggioranza araba. Non parliamo poi della Cisgiordania e delle implicazioni dell’occupazione… In questi trent’anni ho cercato di far conoscere attraverso il teatro la cultura araba, le condizioni di vita degli arabi, la loro quotidianità e il loro punto di vista sulla nostra storia. Che vengano chiamati “palestinesi” o “arabi del ‘48”, quel che conta è che sono cittadini di Israele. E gli ebrei israeliani sanno molto poco di loro. Inoltre non c’è reciprocità: gli arabi israeliani parlano ebraico, ma gli ebrei non parlano arabo… Neppure gli attivisti di sinistra, nella stragrande maggioranza dei casi. Questo è il divario di conoscenza che ho cercato di colmare».
«Ci amareggia profondamente l’involuzione che ha vissuto la società israeliana in questi vent’anni in generale e nell’ultimo anno e mezzo in particolare»
La coppia ha due figli: Maï, 30 anni, graphic designer, e Adam, 24 anni, laureato in Scienze politiche e manager nell’organizzazione bi-nazionale Standing together, che offre uno sguardo privilegiato sulle modifiche anche all’interno della società civile israeliana dopo il 7 ottobre 2023. «Mio marito ed io – ricorda Orna – apparteniamo alla generazione che ha vissuto l’ascesa e il declino del processo di Oslo (con gli accordi del 1993 tra Organizzazione per la liberazione della Palestina e Israele che sembrarono l’aurora di uno Stato di Palestina – ndr). Ci amareggia profondamente l’involuzione che ha vissuto la società israeliana in questi vent’anni in generale e nell’ultimo anno e mezzo in particolare. Mia figlia si è trasferita in Europa. Mio figlio dice che per quelli che scelgono di restare in Israele la strada obbligata non può che essere quella dell’attivismo, della partecipazione per affermare la non violenza e il dialogo per trovare una soluzione al conflitto. Da mesi vediamo moltiplicarsi i segnali di una militarizzazione della società e anche una crescente insofferenza verso chi non accetta supinamente la narrazione dominante sulla ineluttabilità di questa guerra: molte persone hanno perso il lavoro anche solo per un post su Facebook contro il massacro in corso a Gaza».
Lo si è visto, racconta, anche dalle reazioni lo scorso sabato dopo l’ultimo rilascio dei tre ostaggi il 52enne Eli Sharabi, il 34enne Or Levy e il 56enne Ohad Ben-Ami. «In tanti hanno condannato l’aspetto e le condizioni fragili degli ostaggi, l’evidenza che non avevano avuto sufficiente cibo in tutti questi mesi. Ma nessuno si fa domande sulla fame patita da quasi due milioni di persone a Gaza. E questo senza nulla togliere alla condanna per l’attacco atroce di Hamas del 7 ottobre».
«C’è un clima parossistico in Israele: dichiararsi contro la guerra non è più solo impopolare; è diventato pericoloso. Non ci sentiamo più al sicuro qui. Mai come oggi stiamo pensando di emigrare»
Orna, che da molti anni partecipa al tavolo Semi di pace, promosso dalla rivista Confronti, conclude una lettera al marito pubblicata in un libro recentemente edito dalla rivista ventilando per la prima volta l’eventualità di andarsene ed emigrare. Un’ipotesi, racconta, ancora più concreta dopo che il mese scorso è stata licenziata dall’organizzazione non profit Kenafayim, dove dirigeva dei laboratori teatrali per la riabilitazione di artisti con malattie mentali. «Negli ultimi due mesi ci sono successe cose orribili. Due mesi fa mio marito, che è ricercatore in un laboratorio di analisi del sistema sanitario pubblico a Tel Aviv, è stato sospeso dal lavoro perché ha risposto male a una guardia all’ingresso che di punto in bianco ha cominciato a chiedergli tutte le mattine la carta di identità, come se non sapessero che lavora lì da molti anni. Il 31 dicembre 2024 abbiamo ricevuto una telefonata dai nostri vicini di casa nel villaggio di Jatt, nella casa di campagna che ci ha lasciato mia suocera, per avvisarci che la polizia aveva fatto irruzione nella casa in cerca di armi… Non avrebbero potuto perquisire la casa in assenza dei proprietari, ma hanno sfondato la porta e devastato l’appartamento senza motivo. Le lascio immaginare in che stato lo abbiamo trovato. Ed infine il mese scorso sono stata licenziata dall’ente dove da anni svolgevo dei corsi di teatro-terapia perché, alla richiesta di commenti, mi ero espressa contro il massacro a Gaza. Tutto questo per dire che c’è un clima parossistico in Israele: dichiararsi contro la guerra non è più solo impopolare; è diventato pericoloso. Non ci sentiamo più al sicuro qui. Mai come oggi stiamo pensando di emigrare».
«Viviamo una fase molto difficile, ma dobbiamo continuare a credere che un cambiamento sia possibile»
La sua speranza, dice, trae forza dall’impegno del figlio Adam nel contrastare questo clima e anche nell’avvertire il dovere morale di non soccombere davanti all’estrema polarizzazione che ha preso piede nel Paese. «Viviamo una fase molto difficile – chiosa Orna – ma dobbiamo continuare a credere che un cambiamento sia possibile, che questo ciclo negativo finirà e a rendere ragione della nostra speranza che tutto questo non durerà per sempre. Se decidiamo di restare in Israele, non possiamo far altro che lavorare per il cambiamento sociale e politico perché se noi non portiamo avanti la fiducia in questi valori, chi lo farà per noi?».