Gli Stati del mondo avevano firmato nel 1993 una convenzione internazionale (Cwc nella sigla inglese), entrata in vigore nel 1997, che proibiva sviluppo, produzione, stoccaggio e impiego di armi chimiche, e richiedeva la loro distruzione. Le disposizioni della convenzione dovevano essere attuate dall’Opac, un’organizzazione intergovernativa incaricata di supervisionare i processi di eliminazione delle armi chimiche dalla faccia della Terra.
La storia della lotta contro questo tipo di armi è lunga più di un secolo ed ebbe impulso specialmente dalla constatazione degli orrori della Prima guerra mondiale, quando lo sviluppo tecnico scientifico fornì agli europei in guerra tra loro l’opportunità di usare su larga scala armi tossiche come il cloro, il fosgene e l’iprite, che fecero decine di migliaia di vittime. Le armi chimiche furono poi impiegate in diversi conflitti coloniali, tra cui l’invasione dell’Etiopia da parte dell’Italia fascista, e in violazione di tutti gli accordi internazionali per proibire munizioni con gas asfissianti, che dal 1899 in poi erano stati siglati. Queste tipologie di armi vietate furono ancora sviluppate, prodotte e stoccate in grandi quantità durante la Seconda guerra mondiale e la guerra fredda. Bombe al napalm furono sganciate dagli Usa su Tokyo nel 1945, causando 100mila morti, e per diversi anni sul Vietnam; Saddam Hussein impiegò il gas nervino nella guerra contro l’Iran degli anni Ottanta e contro i curdi iracheni ad Halabja nel 1988, uccidendo almeno cinquemila persone.
Solo il disgelo Est-Ovest degli anni Novanta favorì l’accordo multilaterale della Cwc. A livello mondiale sono stati raggiunti risultati notevoli, se nel 2021 il 98 per cento delle armi chimiche risultava ufficialmente distrutto.
Numerosi Paesi nel corso degli anni hanno aderito convenzione e gli unici tre Stati che 30 anni fa non firmarono e né aderirono mai al processo sono stati la Corea del Nord, Egitto e Israele. Tra gli ultimi firmatari ci fu la Siria di Assad, il 14 settembre 2013.
La «linea rossa» ampiamente superata
Che cosa accadde quell’anno? Il mondo si accorse che vent’anni dopo la firma della convenzione, il regime di Damasco disponeva di armi chimiche e le usava contro i propri cittadini, comprese donne e bambini. Nella notte del 21 agosto 2013, due grandi attacchi furono ordinati contro la Ghouta (est e ovest), un’area di sobborghi agricoli a una quindicina di chilometri dal centro della capitale e controllati dalle opposizioni sunnite. Furono sparati razzi contenenti sarin o un agente nervino simile. I sintomi descritti dai medici nei rapporti delle organizzazioni umanitarie lo confermarono. Le stime del numero dei morti variarono molto, da quasi 300 a oltre 1.700.
Il governo di Damasco negò, addossando la responsabilità ai gruppi armati ribelli. La Siria era in piena guerra civile e le forze fedeli al presidente Assad combattevano su diversi fronti forze armate di opposizione. La missione dell’Onu, guidata da uno scienziato svedese, incaricata di indagare, non indicò un responsabile, ma escluse che i gruppi ribelli avessero le capacità militari per una simile azione.
E non era la prima volta: nel marzo precedente un attacco con sarin a Khan al-Asal, vicino ad Aleppo, aveva fatto una ventina di morti tra i civili. Numerosi altri attacchi con sarin, cloro o iprite furono registrati in tutta la primavera e l’estate 2013, prima del 21 agosto, quando le potenze internazionali dissero che si era passato il segno. All’epoca gli Usa con il presidente Obama avevano indicato nell’uso delle armi chimiche una «linea rossa» che, se valicata, avrebbe portato Washington a intervenire militarmente in Siria.
Ma l’opposizione dell’opinione pubblica, sia negli Usa sia nel Regno Unito, a un intervento armato diretto degli occidentali in Siria, portò a una «soluzione» diplomatica, con la mediazione di Mosca: un mese dopo gli attacchi Assad accettò di aderire alla Cwc, promettendo la distruzione delle scorte di armi chimiche, iniziata il 6 ottobre 2013 sotto la supervisione dell’Opac, che poche settimane, per questo, ricevette il premio Nobel per la pace.
Ciò nonostante, il 4 aprile 2017 a Khan Shaykhun, un centinaio di persone morirono in un attacco aereo che fece piovere bombe di sarin, e un anno dopo ci furono almeno 43 morti per armi chimiche a Douma, un centro vicino a Damasco bestione dell’opposizione. Un’indagine congiunta dell’Onu e della stessa Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche riscontrò «prove inequivocabili» contro Assad. Anche Human Rights Watch affermò che Assad era probabilmente il responsabile. In seguito, una commissione indipendente dell’Onu incaricata di indagare sugli attacchi chimici avvenuti in Siria tra 2013 e 2018, riuscì a esaminarne 37, concludendo che 32 erano stati provocati dalle forze governative e in cinque casi gli autori erano sconosciuti.
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Nowhere to Hide, un rapporto del 2019 reperibile online e prodotto dal Global Public Policy Institute, un ente indipendente di Berlino, riferisce che l’89 per cento di questi attacchi fu fatto utilizzando il cloro, perché è una sostanza facile da reperire, con bassi costi e molti impieghi civili.
Si sa che i trattati possono essere carta straccia, se chi li firma è determinato a non rispettarli. Dei 336 attacchi con armi chimiche registrati in Siria durante la guerra civile, il 90 per cento sono avvenuti dopo il famoso superamento della «linea rossa» e quasi tutti sono stati attribuiti al regime di Assad.
Nel 2017 la Russia in Consiglio di sicurezza all’Onu protesse per cinque volte, ricorrendo al diritto di veto, Assad, bloccando in tal modo risoluzioni che lo condannavano a ritorsioni per l’uso delle armi vietate. Come i bombardamenti con le bombe a grappolo, quelli con le armi chimiche sono riusciti a spingere innumerevoli civili a fuggire dalle proprie città. Anche per questa ragione, metà dei siriani non è più stata in grado di tornare a vivere nei luoghi dove abitava all’inizio della guerra. (f.p.)