(g.s.) – Dalle 4 del mattino del 27 novembre 2024 è entrato in vigore il cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah, di cui beneficia in primo luogo la popolazione civile, a cominciare dal milione di sfollati costretti ad evacuare settimane fa i villaggi nel Libano meridionale.
Le armi tacciono – almeno parzialmente e non si sa fino a quando – dopo 14 mesi di bombardamenti reciproci, intensificatisi nel settembre scorso con un più deciso martellamento di Israele che ha poi dato il via anche a un’invasione delle forze di terra nella regione a sud del fiume Leonte (o Litani).
Gli israeliani non esultano
Tra gli obiettivi israeliani dichiarati, oltre che decapitare Hezbollah (letteralmente, il Partito di Dio) ed indebolirne le capacità offensive, c’era anche quello di rendere sicuro il rientro alle loro case dei 60mila israeliani sfollati dall’Alta Galilea. Obiettivo, quest’ultimo, che non pare essere stato conseguito. Molte municipalità ai confini con il Libano continuano a sentirsi insicure e tante famiglie, per ora, preferiscono rinviare il rientro alle proprie case. La «vittoria totale» sul nemico, promessa dalla propaganda governativa, non è stata conseguita, pur avendo causato devastazioni di edifici e territori e la morte di almeno 3.800 libanesi (dall’8 ottobre 2023), secondo i dati riferiti dal quotidiano L’Orient-Le Jour.
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Decisiva per il raggiungimento del precario accordo è stata la mediazione di Amos J. Hochstein, inviato del presidente degli Stati Uniti. Ha incontrato e ascoltato tutti. Il suo principale interlocutore in Libano è stato il presidente del Parlamento libanese, lo sciita Nabih Berry, uomo delle istituzioni e insieme leader del partito Amal – un tempo antagonista di Hezbollah – ma anche in grado di rappresentare le istanze del Partito di Dio ad americani, francesi e israeliani, i più coinvolti nei negoziati che hanno prodotto il cessate il fuoco.
Tornare a sud?
Una volta siglato l’accordo, in un discorso televisivo Berry ha evocato la vittoria di chi ha saputo resistere all’invasore e ha invitato i libanesi sfollati a tornare ai propri villaggi nel sud per ritrovare «i loro fichi e ulivi». La retorica in politica non difetta mai. Più prosaicamente si tratta di vedere cosa sia rimasto in piedi dopo i bombardamenti (in molti si sono precipitati a verificare di persona). L’esercito israeliano per ora non si è ritirato; ha imposto una sorta di coprifuoco notturno per gli autoveicoli nelle aree a sud del Litani e ordinato agli sfollati di tenersi alla larga dai luoghi in cui stazionano ancora le sue truppe. Il 28 novembre ha di nuovo bersagliato un deposito di armi. I termini del cessate il fuoco prevedono che gli israeliani possano comunque attaccare per fronteggiare eventuali minacce di Hezbollah. Continueranno anche le ricognizioni dal cielo (ad alta quota) per tenere sotto controllo i movimenti sul terreno. A sud del fiume Litani dovrebbe aumentare la presenza di contingenti dell’esercito regolare libanese incaricati di ostacolare – in collaborazione con il contingente Unifil – il ritorno delle milizie sciite. Stati Uniti (in collaborazione con la Francia) e Israele si riservano di vigilare contro le infiltrazioni di uomini di Hezbollah nei ranghi dell’esercito, come pure sulle attività dell’Iran in Libano. Il quadro giuridico di riferimento resta la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che già nel 2006 imponeva a Hezbollah di disarmare e ritirarsi a nord del corso del Litani, cioè a una trentina di chilometri dal confine con Israele.
Guardare avanti
Intanto i libanesi si leccano le ferite e fanno il censimento dei danni subiti. La devastazione nel sud del Libano è immane. Considerato che il Paese è un malato che versa da anni in una pesante crisi economica il capitolo della ricostruzione non sarà semplice da articolare. Serviranno certamente finanziamenti esteri.
L’azienda incaricata della rete elettrica nazionale s’è messa al lavoro per mappare gli interventi necessari e cominciare a realizzare i più urgenti.
Il ministro dell’Istruzione Abbas Halabi ha invitato le scuole private a riprendere sin dal 28 novembre i normali corsi in presenza, assicurando però anche le lezioni a distanza per gli allievi che sono stati costretti a trasferirsi altrove. Le scuole pubbliche impiegheranno qualche giorno in più. Va ricordato che l’anno scolastico 2024/2025 non ha potuto aprirsi regolarmente anche perché molti plessi scolastici sono stati utilizzati, almeno parzialmente, come centri di raccolta per le famiglie sfollate.
Il nuovo capo dello Stato non prima del 2025
Il 28 novembre Nabih Berry ha comunicato l’intento di convocare il parlamento per una seduta elettiva del nuovo capo dello Stato il 9 gennaio 2025. Dice di voler così tenere fede alla sua parola – daremo al Libano un nuovo presidente non appena ci sarà una tregua –, ma non pare avere troppa urgenza. Di tempo a disposizione per appianare le divergenze le forze politiche rappresentate in Parlamento ne hanno avuto in abbondanza, ma forse ne occorre ancora per evitare un altro fallimento. La più alta carica repubblicana spetta a un maronita in base al Patto nazionale vigente dal 1943 (forgiato da una prospettiva confessionale e settaria che bilancia le istanze delle componenti cattolico-maronita, sunnita e sciita). L’unico candidato cattolico che i deputati di Hezbollah sono disposti a sostenere è Suleiman Frangieh (59 anni), che però non trova i necessari consensi nelle altre forze parlamentari. Se il Partito di Dio è stato militarmente ridimensionato dall’offensiva israeliana, non sembra venuta meno la sua capacità di condizionare e indirizzare le dinamiche istituzionali del Paese dei cedri, dove gli sciiti sono grosso modo un terzo della popolazione.
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