Specialista in violenza politica e conflitti, Sylvaine Bulle insegna sociologia all’Università Paris Cité ed è ricercatrice nel Laboratorio di antropologia politica della Scuola di studi superiori in Scienze sociali di Parigi (Ehess-Cnrs). Attualmente si occupa di questioni ambientali ed ecologiche in Israele.
• Lo scorso agosto in un’intervista le è stato chiesto di commentare l’escalation tra Iran e Israele. Lei ha spiegato che la regione si trova in «uno stato di violenza quasi filosofica». Che cosa intende?
Dal 7 ottobre 2023 ci troviamo a un punto di svolta nell’analisi politica e filosofica della regione. La mia teoria è che alcune emozioni abbiano lasciato la sfera privata per diventare il linguaggio politico dominante. Ne distinguo quattro, valide sia per Israele che per la Palestina, poiché queste due società funzionano come specchi. Innanzitutto, c’è la paura. È un’emozione centrale in Israele, un Paese che è stato plasmato dalla paura di un nemico esterno, sia esso immaginario o reale. La paura è sempre stata un sentimento nazionale, ma era controllata, incorporata in sistemi di «protezione profonda», come l’esercito.
Da un anno la paura è diventata un sentimento autonomo, che lo Stato non può più controllare e che si è trasformato in crudeltà. Questa seconda emozione politica è essa stessa alimentata dal disprezzo, un sentimento coltivato dai partiti di destra e di estrema destra, come il partito Otzama Yehudit. Dal disprezzo nasce anche il desiderio di vendetta. Tuttavia, la vendetta è un sentimento che rifugge ogni strategia politica: esiste una forma di irrazionalità e collettivizzazione di questo sentimento che lo rende il linguaggio politico dominante.
Quando la paura, il disprezzo, la crudeltà e la vendetta diventano politici e non sono contrastati da altre emozioni come l’empatia o la tolleranza, si entra in uno stato di violenza reificata e stabilizzata dagli attori politici, ma anche dai media israeliani: ciò che è percepito è diventato rappresentato. È il linguaggio dominante e risulta quasi impossibile opporvisi. Il «campo della pace», che difende i valori umani della convivenza, è totalmente emarginato. L’empatia scompare. Se esiste, sta sotto il titolo di patriottismo esclusivo: siamo empatici con coloro che appartengono alla nostra comunità. Il nazionalismo palestinese prende forma allo stesso modo, anch’esso guidato da sentimenti di vendetta e risentimento.
• Chi incolpare per questo passaggio delle emozioni private verso la sfera pubblica?
In parte i mezzi di comunicazione. In assenza di un’autorità intellettuale o morale, totalmente assente, i cittadini israeliani si rivolgono ai media che sono i principali produttori di discorsi nazionalisti, mentre i corpi intermedi, nei decenni passati, gli scienziati e gli intellettuali erano le autorità morali… Ma loro sono screditati dalle spinte verso destra della società. Chi dà il ritmo? I media, e in particolare i canali 12 e 14, totalmente pro-Netanyahu.
Esiste anche quella che chiamiamo liminalità, una soglia che contiene una dimensione di ambiguità: lo spazio pubblico esiste per supervisionare, per incanalare le emozioni, ma i dibattiti alla Knesset sono occasioni di violenza verbale. Dalla fine degli anni Novanta e dall’ascesa al potere del Likud, gli «imprenditori politici» hanno coltivato un linguaggio di risentimento verso i palestinesi: insulti, abbrutimento, sputi… Questi comportamenti fanno molta presa nella società: poiché i politici hanno questa tolleranza rispetto alla violenza, allora tutti si sentono autorizzati.
Questo aumento della violenza riflette anche la decadenza morale della società. Le classi intellettuali, compresi i militari, se ne vanno: nell’ultimo anno circa 80mila persone, le più istruite, hanno lasciato Israele. Ciò apre spazio ai sostenitori di un nazionalismo esclusivo, che non lascia spazio agli altri e li scoraggia. In questa prospettiva possiamo preoccuparci del futuro di Israele se dovesse essere costituito solo da coloni, palestinesi, lavoratori asiatici e religiosi.
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La società israeliana non è di estrema destra. Nemmeno il governo: solo cinque ministri appartengono ufficialmente ai partiti radicali. Inoltre, troppo spesso facciamo di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich la stessa entità, anche se sono molto diversi in termini di gestione delle emozioni politiche. Smotrich vuole fare del disprezzo e della vendetta un progetto nazionale extraterritoriale, che comprende la Giudea e la Samaria. Il progetto di Ben-Gvir è meno ambizioso: vuole contenere le emozioni politiche, eliminare i palestinesi perché rimandano all’alterità, e fondare una società che definirei «neo-sionista», cioè composta da ebrei nativi israeliani come definizione dell’entità israeliana. L’ebreo della diaspora diventa nemico rispetto al sabra (l’ebreo nato in Israele, ndr). Ben-Gvir vuole un Paese a sua immagine.
• Come spiegare questo desiderio permanente di reagire? Non lasciare nulla di impunito, anche se ciò vuole dire spingere la regione verso una guerra totale?
È molto tipico delle società in cui le emozioni politiche sono primarie e definite dalla vendetta. La stessa cosa si osserva in Palestina. Non c’è più un possibile varco in questa offerta di violenza con la violenza. Diventa l’unica lingua possibile. Possiamo tracciare un parallelo con il codice d’onore, molto presente nelle società arabe. In Palestina, poi, la resistenza aggiunge ulteriore intensità.
A questo punto, da entrambe le parti, l’unica strategia possibile è difendersi, e l’unico onore della nazione è resistere. Questo cancella tutto ciò che può dare respiro, un progetto di emancipazione: l’Autorità Palestinese, del resto, è passiva. Sia in Israele che in Palestina non esiste alcun controprogetto, alcuna soluzione alternativa e la diplomazia è impotente. Per questo tale stato di violenza non ha fine: tutti sono bloccati su questo punto d’onore molto maschile, volere la vittoria totale.
• Come invertire la spirale di violenza?
La domanda è anche: come ricreare l’empatia? Dal 7 ottobre c’è stata un’enorme solidarietà orizzontale in Israele: gruppi si sono organizzati per accogliere e aiutare i rifugiati, altri hanno fatto volontariato nei campi, altri hanno cucinato, altri ancora hanno organizzato lezioni di yoga… Fa parte delle misure per contenere la violenza. Questa forma di solidarietà orizzontale garantisce che il Paese non crolli. Ma è limitata, perché rimane in una sfera comunitaria o intrafamiliare: gli attori politici non la trasmettono, soprattutto perché in Israele non esistono più i corpi intermedi.
A parte l’associazione Standing Together che riesce ad ampliare la solidarietà fino a farla diventare empatia condivisa con i palestinesi, essa rimane piuttosto limitata. Proprio qui sta il problema: questa solidarietà non può diventare un progetto politico. C’è una socializzazione che riemerge, ma manca la mediazione di associazioni, sindacati o leader, perché diventi politica e quindi azione democratica.
Oggi, tutte le iniziative israelo-palestinesi che permangono sono legate all’ecologia, perché, appunto, si restituisce un senso alla politica. L’ecologia è la diplomazia della vita, l’unica via di fuga dallo stato di violenza, nelle mani di attori politici che hanno interesse a mantenerla e che impediscono il riconoscimento di individui che possano essere depositari di pluralismo, di empatia e di forza democratica.