Da giornalista nel capoluogo lombardo a diacono (e futuro prete) per i cattolici che vivono in Libano. La vita di Carlo Giorgi, nato nel 1968 a Milano, ha fatto un salto inatteso otto anni fa, con la decisione di entrare in seminario, benché ormai in età adulta. Una decisione che si è fatta strada negli anni in cui – dal 2008 al 2016 – Carlo ha lavorato tra noi alla Fondazione Terra Santa, a pochi passi dall’Arco della Pace. Il germe della chiamata, però, risale a molto tempo prima, come ci racconta lui stesso.
«La prima volta che ho avvertito in me la vocazione a farmi prete ero bambino. Avrò avuto 9, 10 o forse 11 anni. Come tanti ragazzi, facevo il chierichetto, andavo a catechismo eccetera. Sentivo che c’era in fondo un desiderio di stare di più col Signore, di essere esclusivamente con Lui. Ricordo di averlo anche raccontato in casa. Poi però c’era sempre una componente di paura di dover lasciare tutto, la mamma, la famiglia, per andare chissà dove. E allora ho accantonato la cosa. Diventato più grande, da adolescente, ho apertamente rifiutato quella prospettiva: pensavo a vivere la vita, ai divertimenti, alle ragazze. Era come se, da una parte sentissi che c’era quella chiamata, ma dall’altra c’era una festa con mille divertimenti molto più divertente e io rischiavo di starne fuori. Allora ho proprio preso a calci la vocazione, l’ho sotterrata e ho fatto la mia vita. Sono andato all’università, mi sono laureato in Lettere, sono diventato giornalista e ho cominciato a lavorare. Ho svolto per vent’anni la professione giornalistica a Milano. In effetti, però, allontanandomi dalla vocazione ho vissuto una sorta di paralisi spirituale, cioè una grande solitudine e l’incapacità di fare una scelta di vita di qualsiasi tipo».
• Eppure noi che ti abbiamo conosciuto in quegli anni non abbiamo mai avuto la sensazione che tu fossi una persona sola o triste. Anzi, hai sempre trasmesso gioia di vivere, senso della comunità. Come collimano quelle nostre impressioni con ciò che stai raccontando?
Dentro di me sentivo che non era mai abbastanza. Quando ho deciso di non entrare in seminario e di lasciare da parte la mia vocazione, mi sono detto: «Però almeno voglio fare qualcosa per gli altri! Almeno voglio impegnarmi!». E in effetti ho fatto tanto volontariato e il mio primo impegno giornalistico è stato con il giornale Terre di mezzo. Era un giornalismo sociale, impegnato, fatto di denuncia, di amore per la verità e attento agli immigrati. In seguito sono approdato alle testate delle Edizioni Terra Santa, che chiaramente era un giornalismo per i cristiani. C’erano tante cose belle, tanti amici, tante relazioni, ma non mi bastava mai. Ecco, questa era la mia impressione. Avevo dentro un’enorme tristezza, che è la tristezza di quando rifiuti quella che può essere la tua strada o ti allontani dal Signore.
• Come ne sei uscito?
A un certo punto – intorno ai quarant’anni – in un momento di grande tristezza e depressione, ho fatto una confessione che invece mi ha dischiuso un po’ la strada. Ricordo quel giorno: ero a casa davanti al computer, non lavoravo ancora alle Edizioni Terra Santa, ma scrivevo principalmente per il Il Sole 24 Ore. Intorno alle 4 del pomeriggio ho sentito il bisogno di andare a confessarmi. Ho raggiunto una chiesa e nel confessionale c’era un frate che dopo avermi ascoltato mi ha detto chiaramente: «Sei un superbo!» e mi ha invitato a lasciarmi amare da Dio con tutti i miei limiti e le mie debolezze. Per me lì si è aperto il Cielo. Dopo essere tornato qualche volta a confessarmi da lui, quel frate mi ha detto: «Guarda, ci sono delle catechesi. Forse ti interessano, forse no. Te le propongo. Vai ad ascoltarle e vedi se te la senti di entrare in quella comunità. Era una comunità neocatecumenale e ci sono entrato così, molto semplicemente. Mi ha aiutato molto constatare come veniva vissuta la fede nella comunità. Si vedeva che il Signore è presente, salva, ama, sostiene la vita di ogni singola persona della comunità, che include gente laureata e analfabeti, anziani e giovani, con famiglia o senza famiglia. Allora ho creduto che Dio poteva essere presente anche nella mia vita. Che, se era vero per loro, era vero anche per me che mi amava. Dopodiché è riaffiorata la vocazione, proprio durante il periodo di lavoro per le Edizioni Terra Santa. Diciamo che l’ingresso in quella comunità e il lavoro alla rivista Terrasanta hanno marciato in parallelo.
• Rammentaci come iniziò la tua esperienza alla Fondazione Terra Santa.
Devo dire che è stata una grande grazia, che ho sempre considerato un fatto provvidenziale. Mi ricordo che lavoravo come freelance. I miei pezzi venivano pubblicati su grandi testate, come Il Sole 24 Ore, Panorama, Famiglia Cristiana, L’Espresso. Avevo un’attività di pubblicazione costante, nel senso che ogni settimana uscivano miei testi su quei giornali, ma ad un certo punto, era intorno a novembre, ho fatto i conti e mi son detto: «Non funziona. Io devo assolutamente trovare un lavoro part time perché altrimenti non riesco a sbarcare il lunario. Con tutto quello che faccio, i soldi che riesco a guadagnare equivalgono a mezzo stipendio». In quei giorni stavo lavorando a un’inchiesta su un una falsa associazione di volontariato che millantava di fare delle adozioni a distanza. Giuseppe Caffulli, il direttore della rivista Terrasanta, aveva pubblicato tempo prima un piccolo libro sulle adozioni a distanza. Ci conoscevamo da tempo e così ho chiesto di intervistarlo perché mi aiutasse ad orientarmi nel mondo delle adozioni a distanza e mi chiarisse quali sono gli elementi da prendere in considerazione.
Dopo avermi fornito qualche consiglio, Giuseppe mi chiede: «Che cosa stai facendo in questo periodo?» «Ma, guarda, veramente sto lavorando per questo, quest’altro e quell’altro giornale», ho detto con molta superbia, in modo un po’ tronfio. E lui: «Sai, noi stiamo cercando una persona che lavori part time». Mi son ricordato di ciò che avevo pensato pochi giorni prima e mi son detto: «Questa è la Provvidenza». «Se vuoi comincio domani», è stata la mia risposta, e in effetti il giorno dopo ho iniziato. Fino a quel momento, i miei interessi sul versante giornalistico erano il sociale e l’immigrazione. Da lì in poi ho cominciato a informarmi e a conoscere meglio il Medio Oriente e i cristiani mediorientali. Sono andato in Terra Santa diverse volte, e ho seguito i viaggi di papa Benedetto XVI in Giordania [nel 2009] e in Libano [2012]. Più tardi, quando la mia vocazione è riemersa nell’ambito del Cammino neocatecumenale, che ha molti seminari in giro per il mondo, mi hanno proposto proprio di andare in Libano. Ho accettato perché mi è sembrato un altro passo nella stessa direzione. In tutto questo percorso ci ho visto una logica del Signore, che non avevo cercato, ma che ho accolto. Così ho lasciato le Edizioni Terra Santa, che per me sono state fondamentali. Penso ai colleghi, penso a fra Giuseppe Ferrari [1952-2022, all’epoca presidente della Fondazione Terra Santa – ndr] che mi ha sempre sostenuto, con cui mi sono confidato e che mi ha esortato – «Accetta i tuoi limiti e vai, non ti preoccupare, abbi fiducia» – con uno sguardo sempre bello, positivo sulla vita e rasserenante. Lavorando lì ho anche avuto quella tranquillità che ha permesso di far maturare le cose dentro di me; se fossi stato un precario che doveva sempre barcamenarsi, sarebbe stato più complicato. Invece si è lavorato bene e anche con tanta comunione.
• Nel 2016, dunque, è arrivato il salto verso il Libano. Che esperienze hai fatto in questi ultimi otto anni?
Mentre studiavo la teologia e la lingua araba, ho trascorso tre anni in Libano, poi sono andato tre anni in missione in Egitto, anche per acquisire maggiore dimestichezza con l’arabo, e infine sono tornato per altri due anni a Beirut.
All’inizio è stata molto dura. Ti ritrovi in un posto dove c’è una lingua difficilissima da imparare, perché in realtà non esiste l’arabo. Di fatto devi apprendere due lingue: l’arabo classico, che però non parla nessuno, e uno dei tanti altri “arabi” locali. Non impari mai del tutto, soprattutto se hai la mia età e non sei un ragazzo di vent’anni che si butta, ha tutti i neuroni al loro posto e impara in fretta. Io è per miracolo che parlo l’arabo. I primi tre anni non entrava: in Libano, dove tutti sono anche francofoni o anglofoni, se vedono una persona in difficoltà con la lingua le si rivolgono in inglese o francese… In Egitto ho imparato l’arabo perché là è più difficile trovare chi parli inglese o francese, quindi – come dico io scherzando – se vuoi mangiare devi almeno imparare un po’ di arabo. Ora mi esprimo, parlo, pur facendo degli errori. Ogni tanto mi chiedono se sono armeno. Gli armeni, pur essendo in quelle terre da generazioni, hanno il loro accento e fanno ancora qualche errore di grammatica derivante dalla loro lingua. Così quando mi chiedono se sono armeno mi fanno un grande onore perché significa che immaginano che anche io sia nato lì.
• I seminari Redemptoris Mater, del Cammino neocatecumenale, sono ambienti internazionali, quindi forse c’è anche una difficoltà in più che nei seminari diocesani…
La mia esperienza del seminario è quella di un luogo che mi ha formato. Certo è più difficile quando sei grande perché ti ritrovi a vivere accanto a dei ragazzi che per età potrebbero essere tuoi figli. Il seminario comunque ti forma alla disciplina, alla condivisione, al servizio, tutti aspetti molto importanti. Ogni anno la comunità cambia un po’ fisionomia. L’anno scorso, ad esempio, le lingue parlate tra noi erano soprattutto il francese e l’arabo. Quest’anno sono arrivati dei nuovi seminaristi dall’America centrale quindi saranno lo spagnolo e l’arabo, oltre al francese, che serve per gli studi all’università. C’è di buono che tu, dal punto di vista linguistico, sei come gli altri, imperfetto come tutti. Si parla una lingua stranissima, un mix di vocaboli spagnoli, italiani, francesi e arabi…
In comunità siamo una decina. Quest’anno ci saranno quattro libanesi, due statunitensi, un ecuadoregno, un egiziano e uno della Giordania. Io ci resterò per un poco ancora, credo, fino a che il vescovo mi avrà assegnato una sede.
Anche in Libano, per la mia formazione personale come cristiano, sono inserito in una comunità neocatecumenale per vivere la dimensione comunitaria della fede. Per chi ha questa spiritualità, per chi ha ritrovato un po’ la fede in un contesto del genere, la comunità resta fondamentale. La fede si può vivere in qualsiasi modo, però ti dà una ricchezza in più vedere che nei fratelli Dio agisce. Le nostre non sono comunità di vita [non si abita insieme], ma hanno ritmi abbastanza stretti. Ci troviamo due sere alla settimana: il mercoledì per una celebrazione della Parola, il sabato per l’Eucaristia. Ogni seminarista del Cammino neocatecumenale partecipa anche alla vita di una comunità esterna al seminario Redemptoris Mater. Oltre alle attività che svolgo in parrocchia, faccio parte di un gruppo di catechisti che seguono varie comunità neocatecumenali, in particolare due che si trovano nel distretto di Sidone. Un impegno che continuerà, con il consenso del vescovo, anche una volta diventato prete. In queste comunità usiamo solo l’arabo nelle preghiere e nelle catechesi. Se Dio vuole che diventi prete celebrerò anche la Messa in arabo.
• Il tempo del diaconato implica nuovi compiti?
Sì. Fin qui il mio compito è stato soprattutto di aiutare la comunità degli stranieri, che è anche una cosa nelle mie corde. Come dicevo prima, mi sono sempre occupato di queste tematiche – come l’immigrazione – e ho visto in questo ministero una conferma del Signore. A Beirut ci sono due parrocchie latine – quella di St. Jospeh, ad Achrafieh (io frequento questa), e quella di Bourj Ammoud, ospitata in spazi messi a disposizione dai maroniti in un quartiere originariamente abitato dagli armeni, ma ora anche da molti altri stranieri. La caratteristica di queste parrocchie è che c’è anche la pastorale per i migranti. Parliamo di oltre 120mila cattolici di rito latino, ma i migranti sono molti di più. Ci sono, ad esempio, gli etiopi ortodossi e così via. I cattolici latini vengono soprattutto dalle Filippine, dallo Sri Lanka, dal Sud Sudan e da altri Paesi dell’Africa centrale di lingua francofona… Essenzialmente lavorano come collaboratori domestici. Sono soprattutto donne, ma ci sono anche famiglie. Cominciano a venire anche i mariti e hanno figli. Molte donne sono sposate con libanesi o con altri immigrati. Si riuniscono in comunità a seconda del Paese d’origine: c’è la comunità degli srilankesi, quella dei filippini, che è la più numerosa, e poi quella sudanese. Quindi io sarò con loro e farò pastorale con loro. Ho già fatto catechismo a persone che chiedono i sacramenti e sto con loro per la celebrazione della Messa. È molto bello, nel senso che sono persone che hanno poche risorse economiche e sono anche più sole [dei libanesi]. Pensiamo alle donne filippine che hanno lasciato a casa marito e figli… In questi tempi di guerra si è creata una rete intorno a queste persone, per aiutarle. Ad esempio c’è un appuntamento alle 9 via Zoom. Tutti si collegano, si condividono i problemi. Si cerca poi di assistere laddove ci sono problemi assicurativi o di ordine sanitario. I gesuiti americani, ai quali è affidata la parrocchia di St. Joseph, sono bravissimi, secondo me, e fanno un gran lavoro. In quel contesto si comunica soprattutto in inglese e in arabo.
Come diacono mi inserirò nelle attività della Chiesa latina che ha parrocchie in tutto il Libano. Da poco ho completato il ciclo di studi teologici all’Università di Kaslik (Holy Spirit University of Kaslik – Usek, ateneo dell’Ordine maronita libanese), un centro urbano cristiano pochi chilometri a nord di Beirut, sulla litoranea.
• Tu vieni da studi umanistici, prima lo Scientifico e poi Lettere, ma lo studio della teologia ha rappresentato una novità. Cosa ti ha lasciato questo nuovo percorso formativo?
[Carlo sorride] Una premessa: ho compreso ciò che ho studiato in questi anni, ma la mia paura è di dimenticarmi tante cose, magari un po’ tecniche, e di non essere pronto a rispondere alle domande che mi faranno le persone… Detto questo, ciò che mi porto a casa della teologia è l’insegnamento di alcuni professori: l’essenziale è cercare il volto di Dio, il volto di Cristo. Non c’è nient’altro di più importante. Possiamo essere dei dotti, o sapere tutto a memoria, ma se non abbiamo un’intimità col Signore è tutto perso. I corsi più belli? Quelli di spiritualità orientale, lo studio dei Padri della Chiesa orientali.
In fin dei conti capisci che se la teologia è solamente uno studio erudito è insufficiente. Mi si è dischiusa, comunque, una prospettiva tipicamente orientale. Ora, ad esempio, non mi scandalizza più la questione dei preti sposati perché in Medio Oriente sono una cosa normale [le Chiese cattoliche orientali, analogamente a quelle ortodosse, hanno al loro interno anche sacerdoti sposati e con famiglia, ai quali è precluso però l’accesso all’episcopato, riservato ai monaci celibi – ndr]. Conosco preti sposati molto bravi, molto saggi e buoni. Certo, un prete sposato, se le cose in famiglia vanno male, ha una croce in più di un prete non sposato. Ho capito un pochino meglio anche alcuni tratti della spiritualità orientale come la luce. Lì, a differenza che in Occidente, si accentua più la Trasfigurazione, la gloria, della Passione [di Gesù]. Un esempio: san Francesco d’Assisi ha le stimmate; san Charbel [1828-1898, santo monaco maronita libanese] ha la luce. Sono due cose che si compensano alla fine. Gli studi di teologia sono stati molto utili, ma non sono centrali. Il centro di tutto e avere una relazione personale con Gesù. Cosa che è possibile in qualsiasi stato di vita.
• Il percorso degli studi si ferma qui?
Se potrò continuare a studiare, mi piacerebbe frequentare corsi di archeologia biblica o di islamologia. Anche il Libano è Terra Santa perché pure qui ha predicato Gesù e numerosi sono i riferimenti anche nell’Antico Testamento. Siamo la terra della Bibbia, ma dal punto di vista dei cananei. La nostra è la terra dei Baal… È bellissimo poter fare delle catechesi archeologiche. Quando finirà questa guerra, sarebbe interessante poter portare dei pellegrini anche in Libano. Anche lì puoi capire molte cose della Bibbia.
Un corso che mi è piaciuto tanto è stato quello di islamologia, che mi ha fatto capire moltissime cose della nostra fede, della rivelazione di Gesù. Le capisci meglio per contrasto con la fede musulmana. I musulmani che vivono con noi sono amati da Dio quanto noi. Bisogna capirli bene. Dell’islam, in genere, sappiamo quattro cose, molto poco. Secondo il mio vescovo probabilmente potrò studiare islamologia all’università Saint Joseph, l’ateneo dei gesuiti a Beirut. Lì c’è un corso che occupa un paio di giorni alla settimana, il che mi consentirebbe di portare avanti gli altri compiti che mi sono affidati.
• Ormai siamo alla vigilia dell’ordinazione diaconale che implica anche l’incardinazione canonica nel vicariato apostolico di Beirut…
Confesso di essere un po’ trepidante. Credo che sia normale alla vigilia della consacrazione. Alla fine non so perché mi abbia scelto il Signore. Lo saprà lui. Io gli sono riconoscente perché quella paralisi che gli altri non scorgevano, ma che io vedevo, si è sciolta. Mi ha rimesso in cammino, ha avuto misericordia. In fondo io sono molto contento quando evangelizzo. Mi piace soprattutto quando le persone esprimono sorpresa ed entusiasmo per quello che ci insegnano certe pagine evangeliche. Penso, ad esempio, al tema del perdono. Riesco a evangelizzare in arabo e la gente dice che mi capisce. Io non so se mi capisca veramente… [ride] È buffo. Nella comunità neocatecumenale io faccio una catechesi, la gente mi ascolta e alla fine qualcuno dice: «Volevi dire questo e quest’altro, vero?» «Sì giusto, giusto».
• La tua ordinazione diaconale avviene nel cuore di Milano. Te lo aspettavi?
Essere ordinato diacono a Milano, in Duomo, per me è una cosa stupenda. In effetti, non era previsto. È stato l’arcivescovo Mario Delpini a chiedere che fosse così. Una consuetudine del nostro seminario a Beirut vuole che almeno un’ordinazione (la diaconale o la presbiterale) la facciamo dove siamo nati e cresciuti, per amore della famiglia, degli amici, dei parenti, della propria storia, in fondo. È una cosa molto bella che non è tipica di tutti i seminari Redemptoris Mater. Avevamo chiesto di poter venire per l’ordinazione con il mio vescovo in settembre presso la parrocchia dei Santi Nabore e Felice, dove c’è la mia prima comunità del Cammino. Una celebrazione che pensavamo un po’ in sordina, senza enfasi. Quando la cosa è arrivata all’orecchio dell’arcivescovo, Delpini ha detto: «No. Riceverai l’ordinazione diaconale in Duomo, con tutti gli altri». Sono stato contento perché in fondo io sono figlio della Chiesa ambrosiana: sono stato battezzato in una parrocchia di Milano (San Giuseppe Calasanzio, in zona San Siro), ho fatto lì l’educatore; poi ho seguito per alcuni anni l’iniziativa Giovani e missione del Pime; con il cardinale Martini ho aderito al Gruppo Samuele; ho frequentato le proposte dei gesuiti, la predicazione di padre Silvano Fausti e l’iniziativa Prendi il libro e mangia in San Fedele. Infine, è arrivato il Cammino catecumenale. Anch’esso sta a Milano ed è una delle mille componenti di questa Chiesa molto ricca, che mi ha nutrito e mi ha fatto crescere. Tutte ragioni che mi fanno essere grato all’arcivescovo per la decisione di ordinarmi in Duomo.
Un profilo del vicariato apostolico di Beirut per i cattolici di rito latino
Monsignor César Essayan (62 anni) è il vescovo della Chiesa cattolica di rito latino in Libano (che non ha il rango di diocesi, ma di vicariato apostolico). Sabato 5 ottobre avrebbe voluto partecipare nel Duomo di Milano all’ordinazione diaconale di Carlo Giorgi (e di 19 giovani), presieduta dall’arcivescovo Mario Delpini. La piega che hanno preso gli eventi bellici nel suo Paese negli ultimi giorni gli sconsiglia, però, di partire. Non può assentarsi da Beirut mentre le richieste di aiuto piovono anche a lui da tutte le parti.
Al telefono ci descrive le caratteristiche della sua comunità, di cui fa parte anche Carlo Giorgi, che proprio in Libano dovrebbe ricevere, più avanti, l’ordinazione sacerdotale dalle mani di mons. Essayan, che ormai è il suo vescovo.
Si parte da un dato comune ad altre realtà del Medio Oriente. In Libano i cristiani sono in maggioranza cattolici maroniti, ma ci sono anche cattolici di altri riti: la Chiesa greco melchita, la Chiesa armeno-cattolica, la Chiesa siro-cattolica, i caldei, i cattolici copti e i latini (ovvero di rito romano). Ci sono poi quattro Chiese ortodosse e i protestanti.
«Io stesso – dice mons. Essayan – sono nato armeno e resto tale, ma da giovane ho scelto di entrare nei francescani conventuali, il che mi ha portato in dono il bi-ritualismo: il rito armeno e quello latino».
Nel 2016 papa Francesco ha scelto fra César come vicario apostolico per i cattolici latini in Libano, nominandolo vescovo. Lui spiega che oggi i cattolici latini in Libano sono un piccolo mosaico di genti: «I libanesi sono all’incirca 18mila, adesso forse un po’ meno perché molti hanno lasciato il Paese. Ci sono poi palestinesi venuti dalla Terra Santa; gli stranieri che si trovano in Libano per ragioni professionali e i tanti lavoratori migranti venuti dalle Filippine, da altri Paesi dell’Asia, dell’Africa. Parliamo di più di 120mila migranti sparsi sul territorio. Solo le donne filippine sono 30mila».
Le parrocchie dislocate in varie zone del Paese dei cedri sono una decina. Il vicariato in quanto tale ha 4 preti (uno solo incardinato, gli altri presenti in virtù di convenzioni con i loro ordinari), 5 diaconi permanenti, un diacono transitorio (Carlo Giorgi) e delle vergini e laici consacrati. Abbiamo poi tante congregazioni religiose latine che sono la forza della nostra Chiesa. Servono il Libano da secoli. Parliamo di 43 ordini, istituti, famiglie religiose e comunità nuove. Complessivamente ne fanno parte 925 preti, frati e suore suddivisi in 200 conventi o presenze in tutto il Libano da nord a sud, da est a ovest. «Sono a servizio di tutti – dice il vescovo –: libanesi, palestinesi, profughi siriani o lavoratori migranti».
«Il vicariato non ha scuole proprie. Sono le congregazioni religiose a possederle e gestirle anche a servizio delle parrocchie. Quando sono diventato vescovo – conclude mons. Essayan – abbiamo dato vita a un servizio sociale del vicariato per soccorrere le necessità dei nostri fedeli e alimentare uno spirito di comunione tra tutti i membri della società e della Chiesa». (g.s.)