Alla fine di maggio si è tenuta a Bruxelles la conferenza annuale organizzata dall’Unione europea e dedicata alla raccolta di aiuti per i siriani. I donatori internazionali si sono impegnati a versare 7,5 miliardi di euro, fra donazioni e prestiti, per chi continua a subire le conseguenze della guerra, esilio, povertà e fame. La cifra promessa è superiore a quella richiesta dall’Onu, ma inferiore rispetto agli anni precedenti, dato l’emergere di nuove crisi, dall’Ucraina al Sudan a Gaza. Nel 2023, anche a seguito del devastante terremoto del 6 febbraio che ha causato 59mila morti in Turchia e 6mila in Siria, si erano raggiunti quasi 10 miliardi. Per il 2024 e l’inizio del 2025 sono previsti 5 miliardi di euro in sovvenzioni e 2,5 miliardi in prestiti. Sono cifre importanti, ma i problemi di fondo non vengono affrontati.
Sul quotidiano libanese L’Orient-Le Jour il politologo franco-siriano Firas Kontar, figura di spicco dell’opposizione al governo di Damasco, sottolinea «l’assenza di un piano per la risoluzione del conflitto siriano» nella conferenza patrocinata dall’Unione europea, che si è limitata a occuparsi della tragedia umanitaria.
Infatti, tredici anni dopo l’inizio dei conflitti, la Siria si trova frammentata tra una zona più vasta sotto il controllo del governo di Damasco (circa il 70 per cento), e altre aree minori: una settentrionale sotto il controllo militare turco; la regione di Idlib a nord-ovest in mano al gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham; il nord-est curdo che si è reso autonomo e perfino una zona di deserto orientale gestita da militari Usa. I siriani rimasti nel Paese vivono perciò in almeno quattro aree distinte a livello di controllo politico e militare, mentre 5,7 milioni sono esuli all’estero, soprattutto in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Europa.
Un’indicazione sulla condizione di vita di chi è rimasto nel Paese è data dall’indice di sviluppo umano (Isu). Quello siriano nel 2021 era di 0,577, allo stesso livello del 1994. Ma se, a quel tempo, la Siria era il 94° Paese al mondo nella classifica dell’Isu, nel 2021 era scesa al 157° posto, numeri che danno la misura del crollo relativo del reddito, della speranza di vita e dei livelli di istruzione che l’indice misura.
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Aiuti, quale distribuzione?
L’Unione europea, insieme ai suoi Stati membri, è stata il principale fornitore di aiuti umanitari per i siriani, e ha mobilitato dall’inizio dei conflitti oltre 30 miliardi di euro (compresi i 6 miliardi dell’accordo del 2016 con la Turchia perché impedisse a milioni di esuli di cercare rifugio al di qua dei nostri confini).
Un aspetto problematico riguarda la distribuzione degli aiuti all’interno della Siria. L’ufficio dell’Onu che coordina gli aiuti umanitari (Ocha) e che è il principale beneficiario dei fondi promessi alla conferenza di maggio, affida la distribuzione degli aiuti nelle zone sotto il controllo di Damasco al Syrian Trust for Development che è un’organizzazione creata e controllata da Asma al-Assad, moglie del presidente al potere dal 2000. Una serie di inchieste ha mostrato come una parte considerevole dei fondi sia finita in mano alla cerchia del presidente e lo stesso aiuto umanitario sia stato usato come arma contro la popolazione.
Un altro aspetto problematico dell’aiuto umanitario che aggrava la tragedia siriana è che esso tende a prolungare la situazione in cui milioni di rifugiati in esilio si trovano, a somiglianza dei palestinesi che vivono in campi per profughi dal 1948. La Siria è stata svuotata di una parte considerevole della sua popolazione e questi siriani in gran parte non sono sostenitori del governo, al quale farebbe comodo mantenerli fuori dai confini.
Il maggior numero di essi vive in Turchia, dove sono 3,6 milioni. Le tensioni con la popolazione turca sono in aumento. Nelle regioni del sud dove i profughi sono più concentrati, gli effetti della pesante crisi economica turca e le conseguenze del terremoto del 2023 si fanno sentire. Diversi partiti politici nel Paese soffiano sul fuoco della xenofobia e alcune migliaia di esuli sono stati rimpatriati a forza. Ma per la maggior parte di loro, come per i siriani in Libano e in Giordania (nonché in Europa), il rientro è pressoché impossibile.
La Rete siriana per i diritti umani, organizzazione di opposizione al governo di Damasco con sede nel Regno Unito, ha documentato l’arresto di oltre 1.200 siriani dall’inizio dell’anno, circa metà da parte delle autorità di Damasco, gli altri per mano di altre milizie. Molti di essi sono stati rimpatriati forzatamente dal Libano. Intanto, nel nord della Siria, dove si concentrano 3,5 milioni di sfollati, le zone non controllate da Damasco subiscono bombardamenti continui.
La risoluzione inapplicata
La risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, votata all’unanimità nel dicembre 2015 e che chiede il cessate il fuoco nel Paese e la soluzione politica del conflitto, non ha portato da nessuna parte. La Siria resta un «failed State», linea di faglia tra le grandi aree dello scontro internazionale in corso ormai da anni.
L’azione umanitaria dovrebbe essere accompagnata da una strategia di risoluzione delle crisi, ma nel caso della Siria questo non avviene. I donatori, che principalmente sono i Paesi occidentali, accettano lo status quo. Gli Usa che nel 2019 avevano imposto un regime di sanzioni (Caesar Act) stanno per approvare l’Anti-Normalization Act che ne renderà ancora più pensanti gli effetti sulla popolazione. Intanto i Paesi arabi, incoraggiati da Russia e Cina, hanno proceduto alla riabilitazione del regime di Damasco che a lungo avevano combattuto. La risoluzione 2254 è stata liquidata da Damasco, che accetta la riconquista militare di due terzi del territorio siriano, senza cercare la pace che sa essere impossibile con la sua presenza.
Senza un piano e una volontà politica da parte della comunità internazionale, il Paese continua ad affondare e il governo di Damasco mantiene una forza di ricatto, attraverso i rifugiati e, secondo quanto riferito da diverse fonti stampa, non ostacolando i traffici di captagon – sorta di anfetamina che dalla Siria dilaga nei Paesi mediorientali –, in cambio della sua riabilitazione. (f.p.)