Girano video di giovani aggrappati al muro di separazione, fermati nel tentativo di passare dai Territori a Israele in cerca di un lavoro. E sui giornali israeliani vengono periodicamente pubblicate notizie di arresti collettivi di palestinesi senza permesso di lavoro. Tanto che gli ufficiali dell’esercito hanno affermato che, poiché molti palestinesi attraversano la barriera di confine illegalmente, sarebbe meglio a questo punto autorizzarne l’ingresso tramite vie ufficiali.
Dopo i fatti del 7 ottobre 2023, con il massacro di 1.200 israeliani e l’inizio della guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza, solo 8mila palestinesi della Cisgiordania sono stati autorizzati a lavorare in Israele, anche se negli insediamenti ce ne sono almeno altri 10mila ancora impiegati, avendo ricevuto l’approvazione dei funzionari di sicurezza e dei consigli regionali locali.
I guai del blocco
La decisione di bloccare i permessi di lavoro ai palestinesi in Israele è stata dannosa sia per l’economia israeliana che palestinese. Le imprese israeliane dell’edilizia e dell’agricoltura hanno sofferto molto per la mancanza di manodopera e oltre 100mila palestinesi impiegati in Israele sono rimasti senza lavoro e senza reddito, aprendo la strada ai gruppi terroristici che sfruttano la loro situazione per arruolare più persone nella loro causa.
Hamas, a quanto riportano fonti di stampa, si offre di reclutare disoccupati e disperati della Cisgiordania per compiere atti terroristici contro esercito e i civili ebrei.
Alcuni funzionari governativi starebbero lavorando per un piano alternativo elaborato insieme al Coordinamento per gli affari governativi nei Territori (Cogat) e allo Shin Bet, i servizi segreti interni, per un ritorno graduale dei lavoratori palestinesi in Israele.
Fermamente contrario il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich, che si rifiuta di permettere qualsiasi cambiamento circa le decisioni prese nei primi giorni di guerra. Come risultato congiunto degli sforzi suoi e del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, la questione dei lavoratori illegali palestinesi, per quanto urgente, non è stata ancora portata all’esame del governo.
Della situazione di questi lavoratori e dell’impatto sull’economia reale della revoca di loro permessi in Israele si è occupato in un lungo articolo anche il giornale elettronico The Times of Israel in un lungo articolo del 22 giugno scorso. «Prima del 7 ottobre – si legge nel pezzo – 200mila palestinesi della Cisgiordania attraversavano il confine per lavorare. Ora siedono a casa nell’incertezza, mentre i funzionari della sicurezza avvertono della potenziale minaccia di una disoccupazione di massa».
Subito dopo l’attacco di Hamas, il governo israeliano aveva annunciato la sospensione dei permessi di lavoro per circa 150mila palestinesi della Cisgiordania, a cui vanno aggiunti i 18.500 a palestinesi di Gaza. Oltre ai titolari di permesso, si stima che altri 50mila lavoratori della Cisgiordania attraversassero illegalmente il confine ogni giorno prima del 7 ottobre. Tra coloro che si sono trovati nell’impossibilità di lavorare in Israele, dove gli stipendi sono più alti che in Cisgiordania, circa 80mila palestinesi impegnati nei cantieri israeliani, tecnici specializzati in settori come la carpenteria in ferro, la pavimentazione, le casseforme e l’intonacatura.
La frenata del comparto edilizio
Per Israele, il blocco dei permessi ai lavoratori palestinesi ha determinato a un drammatico stop del settore delle costruzioni. Nei cantieri per l’edilizia residenziale si è registrata una flessione del 95 per cento alla fine dello scorso anno, il che ha concorso per il 19 per cento alla contrazione complessiva dell’attività economica.
Anche altri settori, come l’agricoltura e i servizi, sono stati colpiti, ma non quanto l’edilizia, che rappresenta il 6 per cento dell’intera economia israeliana.
Sul versante palestinese, la disoccupazione, secondo un recente rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), è ora al 32 per cento. In più, dal 7 ottobre Israele ha trattenuto – sempre a quanto riferisce The Times of Israel – un totale di circa 6 miliardi di shekel (oltre un miliardo e mezzo di euro) di entrate fiscali incassate per conto dell’Autorità palestinese e quindi di sua spettanza. Così il ministero delle Finanze palestinese non ha liquidità per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici.
Il leader della destra religiosa e ministro delle Finanze d’Israele Bezalel Smotrich ha giustificato il congelamento di questi fondi con un argomento non nuovo: l’Autorità palestinese incentiva il terrorismo continuando ad erogare stipendi ai detenuti palestinesi nelle carceri israeliane e pagando indennizzi alle famiglie degli attentatori uccisi.
Le alternative in campo
Fonti della sicurezza recentemente citate dal quotidiano Yediot Ahronoth hanno stimato che potrebbero esserci fino a 40mila lavoratori palestinesi che lavorano illegalmente in Israele. Tanto che i funzionari dell’intelligence temono che l’alto tasso di disoccupazione in Cisgiordania rappresenti una minaccia per la stabilità dell’area, chiedendo al governo di riconsiderare la politica di chiusura, osservando che è preferibile consentire l’ingresso legale e sotto controllo dei lavoratori piuttosto che affidarsi a quelli illegali.
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Ma di fronte ai rifiuti dei leader della destra religiosa, sembra che il governo stia correndo ai ripari. Stando a quanto riferito dall’emittente pubblica Kan, il ministero del Lavoro israeliano si sta adoperando per reclutare almeno 80mila lavoratori stranieri dall’India, dallo Sri Lanka e da altri Paesi asiatici per sopperire alla carenza di manodopera nell’edilizia e nell’agricoltura. Finora, riferiscono fonti sindacali, ne sono arrivati solo circa 5mila, soprattutto dall’India. Un enorme sforzo burocratico, che è solo una goccia nel mare dei bisogni dell’economia reale, senza contare le barriere culturali e linguistiche. Questi lavoratori parlano a malapena l’inglese. L’ebraico, parlato ormai dalla gran parte dei lavoratori arabi palestinesi, è ovviamente ignoto agli asiatici. Inoltre, i datori di lavoro devono sopportare spesso costi aggiuntivi per i visti e l’alloggio. I lavoratori palestinesi invece fanno i pendolari dalle loro case al luogo di lavoro.