Incontriamo Manuela Dviri tramite videochiamata. Ci parla dalla sua casa di Tel Aviv una mattina di pieno sole. La luce filtra dalla tapparella della finestra alle sue spalle, abbassata per metà. Siamo all’ottavo mese di guerra. Giornalista e scrittrice molto nota anche in Italia, tra le altre cose porta avanti da oltre vent’anni, in collaborazione con il Centro Peres di Tel Aviv, il progetto Saving children, che fa curare bambini palestinesi, provenienti dalla Cisgiordania e – prima dell’autunno scorso – da Gaza, in ospedali israeliani.
Le chiediamo di raccontarci di due progetti cui ha dato vita, con altri, dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023. Riguardano i bambini e le donne di alcune comunità beduine nel deserto del Neghev.
• Perché, dopo il 7 ottobre, ha scelto di aiutare i beduini del sud d’Israele?
Ho iniziato a occuparmi di loro – un po’, non che faccia chissà cosa – perché nella tragedia del 7 ottobre, che ha colpito tutti noi in Israele, la comunità dei beduini è quella che mi è parsa colpita due volte. Anzi tre. La prima in quanto israeliana. La seconda perché beduina e musulmana, e ciò nonostante colpita da altri musulmani di Hamas. La terza perché rientra nella fascia di popolazione più povera d’Israele. Mi sembrava giusto cercare almeno di capire, fare qualcosa per loro e per la popolazione dei villaggi non riconosciuti del sud, al confine con Gaza.
• Cosa sono i villaggi non riconosciuti?
I beduini del sud di Israele vivono, in parte, in questi villaggi. Si tratta di insediamenti non approvati dalle autorità israeliane, le cui costruzioni risultano quindi illegali. Sono privi di servizi e infrastrutture. Le case sono baracche dal tetto in lamiera e l’elettricità perlopiù ottenuta da pannelli solari.
Lo Stato israeliano cerca di spingere i beduini ad abitare in città create per loro nella zona, ma molti di loro rifiutano. Preferiscono vivere di pastorizia e agricoltura, come da secoli, secondo la loro tradizione.
• Quali conseguenze ha avuto l’attacco di Hamas del 7 ottobre sui beduini?
Il 7 ottobre fra i beduini sono stati rapiti un padre e un figlio (tuttora nelle mani di Hamas), oltre a una ragazza, Aisha, – fortunatamente poi tornata – e a suo fratello Bilal. Il volto di quella ragazza, tra quelli degli ostaggi, mi era rimasto impresso. Per prima cosa, ho cercato la sua fotografia; quindi come si chiamava, chi fosse, com’era la sua vita… Parlo di otto mesi fa, quando ancora se ne sapeva così poco. Quando pensavo agli ostaggi, nella mente avevo la foto di quella ragazza.
Quando, per fortuna, è stata rilasciata, mi è sembrata molto intimidita, impaurita. Nelle immagini trasmesse dalle televisioni era coperta da uno scialle… Sono stata felice del suo ritorno. Poco tempo dopo, ho incontrato la figlia di un’amica, che mi ha parlato di un progetto in una scuola beduina nel sud, chiedendomi se volevo dare una mano. Così è nato questo progetto. Non è il primo (in passato ne avevo seguiti altri con i beduini), ma è un’iniziativa che per me significa molto.
• In cosa consiste il progetto?
Si propone di aiutare, attraverso il dono di computer portatili connessi in Rete, i bambini delle scuole di Abu Qrenat, un villaggio beduino nel deserto del Neghev nordoccidentale. Abu Qrenat conta circa 4.000 abitanti, il 60 per cento dei quali sono minori sotto i 18 anni d’età.
Nei giorni successivi al 7 ottobre, ben 17 abitanti beduini di questa zona, tra cui 6 bambini, sono morti a causa dei missili lanciati dalla Striscia di Gaza. Com’è immaginabile, lì – in uno spazio completamente aperto – non risuonano le sirene degli allarmi, né vi sono rifugi o spazi protetti.
Anche a causa di quegli attacchi, si è dovuto ricorrere all’apprendimento da remoto per i bambini e i ragazzi. La maggioranza delle famiglie non disponeva però degli strumenti necessari. Di qui l’idea di far avere ai bambini e quindi alle famiglie un dispositivo da utilizzare sia per poter comunicare, sia per l’istruzione dei più piccoli e per migliorare la loro vita.
• Può fornirci qualche dato?
Tra la fine di novembre e la prima metà di aprile, anche attraverso la solidarietà del Comitato Amici Centro Peres per la Pace – per i bambini palestinesi, di Torino, siamo riusciti ad acquistare più di 100 computer portatili. Si tratta di dispositivi rigenerati: ci siamo appoggiati a un’azienda che raccoglie da grandi ditte computer usati di buona qualità, li resetta e li ricicla con l’aiuto di volontari, rendendoli come nuovi. Li abbiamo • donati al preside di una scuola grande, che accoglie moltissimi allievi, con cui siamo in contatto diretto. Lui stesso li distribuisce ai bambini che ne hanno più bisogno.
• Qual è il prossimo passo?
Attualmente stiamo seguendo anche un altro progetto: piccoli orti in serre vicino alle case di donne beduine di questi villaggi non riconosciuti. Nelle ultime settimane sono stata a conoscere di persona queste donne nel villaggio di Abu Qrenat. Stanno facendo qualcosa di straordinario e interessante. Come sempre, le donne sono le più attive e le più forti. Grazie a questi piccoli orti e ad alcuni animali – una gallina, una capra… – riescono più o meno a mantenere la famiglia.
Va precisato che tra loro ci sono anche seconde mogli: spesso sono quelle nelle situazioni più tragiche. Per loro avere un po’ di verdura, latte, uova, significa poter sfamare i propri figli. Così, possono utilizzare la Bituah Leumi, l’assicurazione nazionale che ricevono dallo Stato, per altre necessità.
Le ho intervistate e cercheremo di aiutarle qualora volessero iniziare nuovi progetti e chiedessero il nostro aiuto, ma senza paternalismi di alcun genere. Chi le sta aiutando direttamente, per il momento, sono organizzazioni femminili locali come Itach Ma’aki – Women Lawyers for Social Justice e Sidre.
• Com’è stato per lei entrare in relazione con queste donne?
La cosa di cui mi sono innamorata è il constatare che quando ci si ritrova, ci si siede insieme a bere un tè o un caffè dopo aver parlato delle idee per il futuro e di tutto il resto, si torna a essere donne. Non beduine. Non ebree. Non israeliane. Ci si ritrova così, ad esempio, a parlare del figlio di una che si sposa, di dove ci si è fatte fare il vestito, di chi fa i ricami a punto croce più belli… Allora ad esempio una dice: «I ricami più belli li fanno a Gaza… Ero stata fino a là per il mio vestito» (quando ancora era possibile entrarci…). Un’altra risponde: «No, i ricami migliori sono quelli che vengono da Betlemme». O ancora: «Quale stoffa hai usato?».
Ecco per me il momento più bello: quando ti scordi delle divisioni, e si parla della vita. Un po’, con questa guerra, ce lo siamo tutti dimenticato, che c’è una vita.
• Lei si riconosce anche in quella parte di società israeliana che vuole la fine della guerra…
Sì, e per questo ad esempio nel pomeriggio del primo luglio parteciperò, qui a Tel Aviv, a un incontro pubblico dal titolo È venuto il momento. Il grande evento per la pace. Si terrà in uno stadio che può accogliere fino a 6.000 persone. Parteciperanno tutti i gruppi – associazioni, realtà della società civile, privati cittadini – che stanno lavorando per la fine della guerra, il ritorno degli ostaggi e per nuove elezioni.
La guerra è follia pura. Non si può ottenere nulla dalla violenza. Spero che tutto questo finisca presto e i negoziati portino frutto. Credo che l’unica via sia quella di lavorare insieme, con le forze che ancora ci sono. E queste forze ci sono… Non c’è altra scelta.