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Israele tra democrazia e repressione

Fulvio Scaglione
14 giugno 2024
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Quel che va accadendo nella Striscia di Gaza (ma anche in varie località della Cisgiordania) evidenzia ancora una volta la mano pesante di Israele nei confronti dei palestinesi. Le legittime aspirazioni del popolo palestinese, tuttavia, non fanno strada con violenza e terrorismo.


È appena uscito (reca la data 10 giugno 2024) l’ennesimo rapporto – questa volta di una missione speciale del Consiglio per i diritti umani dell’Onu – sulle sistematiche violenze commesse dai soldati israeliani sui civili palestinesi, uomini, donne e bambini, nel corso dell’operazione militare nella Striscia di Gaza (ma anche delle violenze e rappresaglie in Cisgiordania, dopo il 7 ottobre 2023). Diciamo ennesimo perché di pratiche simili si parla già, alle Nazioni Unite, almeno dal 1996, quando uscì il documento intitolato Rapporto della Commissione speciale per indagare sulle pratiche israeliane che pregiudicano i diritti umani del popolo palestinese e altri arabi dei Territori Occupati. Da allora ad oggi sono stati numerosi gli studi su questi temi, oltre a migliaia di articoli e testimonianze prodotti della stampa internazionale. In questo lasso di tempo, peraltro, le carceri israeliane sono cresciute da 4 a 26. Nuove prigioni sono state costruite nei Territori occupati ed è cresciuta in misura esponenziale l’applicazione della cosiddetta detenzione amministrativa, quel sistema per cui una persona può essere arrestata e restare in prigione per mesi, o anche anni, senza che sia formulata alcuna accusa formale davanti a un magistrato. E può succedere a qualunque età: tra 500 e 700 ragazzi palestinesi di età compresa tra i 12 e i 16 anni sono rastrellati in quel modo ogni anno, e finiscono in carceri gestite da militari. Insomma: se sei un ragazzino palestinese e tiri una pietra a un soldato israeliano vai in galera; se sei un soldato israeliano e spari ai civili di Gaza va diversamente.

Tutto questo dimostra due cose. La prima è che Israele esiste e resiste solo grazie a un sistema repressivo che, misteriosamente, l’Occidente prova a nascondere dietro lo slogan dell’«unica democrazia in Medio Oriente». Che cosa c’entri il fatto che gli israeliani possono votare liberamente con il trattamento riservato ai palestinesi non si sa. Proviamo a immaginare una cosa: se negli anni del Mandato britannico (1922-1947) gli inglesi avessero fatto agli ebrei (che aspiravano allo Stato e, nel farlo, non lesinavano attentati e terrorismi assortiti) ciò che gli israeliani oggi fanno ai palestinesi, che cosa avremmo scritto nei libri di storia? Tanto più che dal 1967 per le Nazioni Unite Israele è «Paese occupante» (nei Territori palestinesi di Cisgiordania e della Striscia di Gaza) e il diritto internazionale prevede che l’occupante abbia la responsabilità della cura di ciò che occupa e di chi vi abita.

La seconda considerazione è questa: la causa del popolo palestinese e il suo diritto a uno Stato indipendente non possono essere difesi con le armi. La strada da percorrere è quella esattamente opposta ai deliri sanguinosi di Hamas, il cui leader a Gaza, Yahya Sinwar, considera in qualche modo utili le morti dei civili. In realtà, ad ogni scontro armato, dal 1948 a oggi, i palestinesi hanno sempre perso territorio, libertà e capacità di azione politica. Non è solo questione di disparità di mezzi militari. Il fatto è che nessuno, in Occidente, è – giustamente – disposto anche solo a immaginare che l’esistenza dello Stato ebraico possa essere messa in pericolo. Questo è un macigno che bisogna aggirare, non prendere a testate.

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