È la prima donna araba e la prima cristiana maronita a diventare rettrice di un’università israeliana: la neuroscienziata Mouna Maroun, 54 anni, specializzata nel trattamento dei disturbi da stress post-traumatico, il prossimo ottobre assumerà la guida dell’università di Haifa, la più mista e la più multiculturale fra le città israeliane, nella fase più dolorosa della storia del conflitto israelo-palestinese. Le aule dell’ateneo di Haifa sono la sua seconda casa, ma le sue radici affondano nel villaggio a maggioranza drusa di Isfaya, sul Monte Carmelo, dove il nonno si trasferì dal Libano con la famiglia. «Le proteste in tutto il mondo contro le università israeliane sono un grosso errore», dice in questa intervista a Terrasanta.net.
• Professoressa Maroun, lei è una specialista dei processi di apprendimento, della memoria e delle emozioni. Ha sviluppato un trattamento per superare le emozioni negative dei traumi. Come sarà possibile curare i danni sulla salute mentale di centinaia di migliaia di persone, tanto fra i palestinesi di Gaza quanto fra le famiglie degli ostaggi e dei soldati israeliani uccisi?
Le ricerche di base che ho condotto in laboratorio, e ovviamente anche altre ricerche, indicano che questo periodo traumatico per entrambi i popoli creerà e indurrà – in realtà ha già indotto – vividi ricordi di paura, memorie di paura che rischiano di perdurare nel tempo. Personalmente ritengo che questo trauma continuerà a creare sfiducia e paura dell’altro. La persistenza di questi ricordi dolorosi generalizzati per gli ebrei e gli arabi renderà ancora più profondo il conflitto e porterà entrambe le parti ad avere timore di avvicinarsi all’altro. Il danno che è stato fatto è talmente enorme che è difficile vedere la luce in fondo al tunnel. Quel che colpisce di più sono gli effetti di questa tragica guerra sui più piccoli: i massacri del 7 ottobre e la guerra che ne è seguita lasceranno ferite profonde e difficili da cicatrizzare soprattutto nelle giovani generazioni, con le loro menti forgiate in questo periodo cruciale dell’infanzia e dell’adolescenza. Eppure, specialmente durante queste giornate così dure, la mutua comprensione e il vivere fianco a fianco attraverso la pace e la giustizia dovrebbero essere la sola garanzia che questi tragici eventi non si ripeteranno.
• Dal 2017 al 2023 lei ha presieduto il comitato direttivo del Consiglio per l’istruzione superiore, con l’obiettivo di favorire la presenza degli studenti svantaggiati, compresi gli arabi, nelle università. Che cosa è stato ottenuto, a suo avviso?
In questi anni la percentuale di studenti arabi è quasi raddoppiata sia tra le matricole, sia tra i laureati e i dottorandi. Il loro tasso di presenza è aumentato anche in ambiti nei quali sono sottorappresentati, come l’hi-tech: gli studenti arabi sono diventati un dato di fatto nelle università e i vari istituti li vogliono non solo per promuovere la loro integrazione come minoranza, perché è una missione nazionale, ma anche perché portano fondi agli atenei grazie al piano governativo collegato al Comitato per l’istruzione superiore. La soddisfazione maggiore che ho avuto come membro del comitato in questi sei anni è stata quella di far accrescere la consapevolezza di quanto sia rilevante la questione dell’empowerment (nei documenti dell’Onu è il processo di acquisizione di poteri, autorità e responsabilità teso al rafforzamento nelle sedi e nei processi decisionali di alcune categorie, come le donne e le minoranze – ndr) degli studenti arabi: tutti oggi sono concentrati sull’aumentare il numero dei laureati arabi piuttosto che il numero di iscritti. Oggi dovunque si vada gli studenti arabi riempiono i campus, è un cambiamento molto significativo del quale raccoglieremo i frutti nei prossimi anni con un loro aumento nel sistema sanitario, nelle aziende dell’hi-tech e speriamo anche come decisori nella pubblica amministrazione e nella politica.
• Che cosa pensa delle proteste nelle università europee e statunitensi contro le politiche di Israele verso i palestinesi, con le richieste di rifiutare la cooperazione universitaria con lo Stato ebraico?
L’Università di Haifa è un’oasi salubre, visto che è la più diversificata ed inclusiva fra gli atenei in Israele. Da noi gli studenti arabi costituiscono quasi il 45 per cento del corpo studentesco, contro la percentuale nella popolazione di circa il 21 per cento. Vuol dire che da noi non esistono maggioranza e minoranza. Il 50 per cento dei nostri studenti proviene da ceti socio-economici disagiati, sia fra gli arabi che fra gli ebrei, ed è la prima generazione che frequenta l’università nelle proprie famiglie: ciò significa che l’istruzione di livello accademico sarà il loro ascensore sociale. Promuoviamo l’eccellenza perché sappiamo che, insieme alla varietà (diversity), è la chiave per il successo. A partire da questa considerazione, le proteste in tutto il mondo contro le università israeliane sono un grosso errore e riflettono la mancanza di conoscenza su come l’università funzioni in Israele. Oltre ad essere eccellenti centri di ricerca, le università israeliane sono a tutti gli effetti veicoli di mobilità sociale. Boicottarci è un atto contrario ai principi della scienza e alla libertà di insegnamento e di ricerca. Boicottarci è impedire l’avanzamento degli studenti arabi e dei docenti e funzionari arabi, non porta ad alcun progresso su nessun fronte: tutto il contrario.
• Quali sono i suoi progetti alla guida dell’ateneo di Haifa?
Io resto convinta che l’unica, o la principale, piattaforma per le pari opportunità per gli arabi in Israele sia l’istruzione universitaria, come si vede dal sistema sanitario e dal numero sorprendente di medici arabi negli ospedali e nelle strutture sanitarie. L’istruzione superiore è dunque cruciale non solo per l’integrazione degli arabi nel mercato del lavoro e nella società di Israele ma anche per il rafforzamento della società araba in sé. Da questo deriva che i campus universitari svolgono un ruolo fondamentale in questo processo. Gli atenei sono il primo luogo di incontro e di reale interazione fra giovani arabi ed ebrei israeliani. Questa esperienza dovrebbe essere coinvolgente e arricchente, specialmente se consideriamo che gli studenti ebrei non conoscono l’arabo e gli arabi non padroneggiano l’ebraico. Come università dobbiamo trovare dei canali di comunicazione e di dialogo. Dobbiamo riuscire a creare un dialogo basato sull’empatia e la comprensione reciproca. In cima a tutto questo, dobbiamo portare avanti la ricerca scientifica e promuovere la conoscenza.
• Lei ha rivendicato spesso il valore aggiunto dell’essere membro di una minoranza all’interno di minoranze. Pensa che i cristiani potranno esercitare un ruolo di ponte fra gli ebrei e gli arabi nel dopoguerra?
Il fatto di essere un’araba in Israele, una cristiana fra gli arabi, una maronita fra i cristiani, una donna, mi ha messo in grado di comprendere i cerchi più ampi, di negoziare, di rispettare i diversi da me e di diventare esperta nel comunicare fra queste diverse maggioranze che compongono la società. Sono convinta che i cristiani di Terra santa possano avere un ruolo più attivo nel costruire la pace, ma anche la loro esistenza dovrebbe essere tutelata. Il mondo occidentale dovrebbe rivolgersi ai cristiani e rafforzare le loro radici e la loro leadership in Israele e presso le autorità palestinesi. Spero che il fatto che io sia cristiana e in una posizione di guida mi metta in condizione di creare questi ponti di dialogo non solo all’interno della società israeliana, ma anche con i nostri vicini e con il mondo occidentale. Considero la mia nomina un modello per i giovani cristiani, uno sprone per restare radicati qui e per tutelare l’esistenza dei cristiani in Terra santa.
• Dal villaggio a maggioranza drusa di Isfiya al post-dottorato in Francia e all’incarico di preside di dipartimento a Haifa, lei ha sempre lavorato per favorire l’ingresso delle ragazze nelle università.
Sono arrivata dove sono oggi grazie ai miei genitori. Eravamo quattro figlie: i nostri genitori non avevano molto da darci materialmente, ma ci riempivano d’amore. Ricordo mio padre sedersi accanto a noi mentre studiavamo, o sul banco in chiesa riservato alla mia famiglia. Né mio padre né mia madre hanno potuto studiare oltre la quinta elementare, ma hanno sempre compreso il potere dell’istruzione, soprattutto dell’università, e questa consapevolezza ci ha accompagnato tutta la vita. Oggi le donne sono il 60 per cento degli studenti arabi: questa è una grande conquista e abbiamo solo bisogno di incoraggiarle e alimentare le loro motivazioni nell’intraprendere corsi di studio in discipline Stem (acronimo inglese che sta per Science, Technology, Engineering, Mathematics), visto che la percentuale di studenti arabi di queste facoltà è bassa, e lo è soprattutto di studentesse. Avere modelli ed esempi di storie di successo può incoraggiare a puntare in alto. Anche per questo negli anni scorsi, insieme ad altri colleghi attraverso l’associazione al Maram, abbiamo creato un gruppo di professori arabi per raccontare le nostre storie nelle scuole. Da ragazzina volevo diventare medico. Ma non ho superato i test di ingresso nelle facoltà di Medicina, ed oggi penso che quell’apparente fallimento sia stata la mia fortuna, perché mi ha permesso di realizzarmi come riesco a fare oggi. Perciò nelle scuole racconto la mia storia di allieva con un rendimento scolastico nella media, niente di eccezionale: ma spiego che ero molto motivata a riuscire bene e a realizzare i miei sogni, e che tutto diventa possibile quando si ha un sogno. Qualche tempo fa ho ricevuto la lettera di una maestra: mi scriveva che dopo uno di quegli incontri una delle bambine le aveva detto: «Da grande voglio diventare come Mouna Maroun». Ecco, questo mi commuove profondamente e mi conferma che i nostri sforzi stanno funzionando. Fino a pochi anni fa non c’erano studenti arabi nelle neuroscienze, mentre ora ne abbiamo davvero tanti.
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