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Israele e Gaza nella campagna elettorale statunitense

Fulvio Scaglione
2 maggio 2024
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Negli Usa, come tutti sanno, è già in pieno corso la campagna per le elezioni presidenziali, con la ripetizione del duello di quattro anni fa tra il repubblicano Donald Trump e il democratico Joe Biden. Israele e Palestina accendono gli animi e obbligano i due candidati a misurarsi con l'opinione pubblica.


Una delle cose che colpiscono nella terribile guerra che si svolge nella Striscia di Gaza è quanto la vita e la morte di decine di migliaia di persone (siamo a 34mila, delle quali il 70 per cento donne e bambini) dipendano dalle vicende politiche di un Paese lontano migliaia di chilometri, alla cui popolazione, nella maggior parte dei casi, delle vicende mediorientali importa poco o nulla.

Mi riferisco agli Stati Uniti d’America, che da sempre sono il grande sponsor di Israele, delle sue politiche e anche del suo benessere, visti gli imponenti stanziamenti (l’ultimo, di qualche settimana fa, è stato di 26 miliardi in armamenti) che dedicano allo Stato ebraico. Negli Usa, come tutti sanno, è già in pieno corso la campagna per le elezioni presidenziali, con la ripetizione del duello di quattro anni fa tra il repubblicano Donald Trump e il democratico Joe Biden.

Come presidente in carica, Biden ha dovuto e deve gestire la crisi di Gaza, dall’attacco dei terroristi di Hamas del 7 ottobre scorso – in cui furono uccisi 1.200 israeliani, in grandissima parte civili, e catturati circa 250 ostaggi – fino all’operazione terrestre di Israele e all’attuale stillicidio di bombardamenti. La sua condotta, chiaramente, è stata dettata dall’opportunismo elettorale. Se vogliamo darle una connotazione politica, possiamo dire che Biden ha cercato di tenere insieme due obiettivi. Da un lato, criticare il premier israeliano Netanyahu, per cercare di non perdere il voto dei giovani, della minoranza americana di origine mediorientale e in genere delle minoranze, che vedono nel furioso attacco alla Striscia di Gaza l’aggressione a una minoranza etnica e religiosa. Dall’altro far chiaramente capire di voler continuare ad appoggiare Israele: da qui le rinnovate e incrementate (gli Usa regalano allo Stato ebraico ogni anno, da molti anni, 4 miliardi di dollari in armi) forniture di armi, il blocco alle risoluzioni Onu, il via libera alla risoluzione sul cessate il fuoco definita però «non vincolante». Risultato: Netanyahu non si è fermato, però in qualche occasione ha rallentato la marcia. Per esempio, complice anche l’attacco iraniano, non ha (ancora) lanciato l’operazione contro Rafah, dove si ammassa un milione e mezzo di palestinesi.

Donald Trump, per parte sua, ha sostenuto «senza se e senza ma» le imprese di Netanyahu per molti mesi, alimentando così la decisione dello stesso Netanyahu nel proseguire sulla strada intrapresa: le elezioni Usa non sono lontanissime e l’appoggio di un candidato che potrebbe anche vincerle era per lui ovviamente importante. Poi, però, Trump, che non è stupido, si è accorto che la strategia di Netanyahu non porta da nessuna parte e certo non sembra avviata a raggiungere il presunto scopo dichiarato, ovvero «sradicare Hamas dalla Striscia». In più, negli Stati Uniti cresce la contestazione dei giovani e delle minoranze alle politiche di Joe Biden, il che ha aperto allo stesso Trump una finestra di opportunità in vista dello scontro elettorale. Così anche Trump ha cominciato a criticare non Israele (e la politica di occupazione dei Territori palestinesi condotta da molti decenni, anche con l’appoggio Usa) ma il solo Netanyahu, in più «accusandolo» non per ciò che sta facendo a Gaza ma per non aver saputo prevedere l’attacco del 7 ottobre scorso e per aver messo Israele in una posizione difficile agli occhi del mondo. Il che in sostanza significa: la politica di espropriazione va bene purché a condurla sia un leader più accorto di Netanyahu. Non è un caso se gli Accordi Abramo, varati dallo stesso Trump nel 2020 per rinsaldare le relazioni tra i Paesi arabi e Israele, era previsto uno Stato palestinese, ridotto però a una specie di riserva senza poteri, totalmente esposto alla volontà di Israele e mantenuto dalle petromonarchie del golfo Persico.

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