È una chiesa colma di fedeli e addobbata quella che viene descritta sulla pagina Facebook della parrocchia latina di Gaza in occasione della Domenica delle Palme, solo pochi giorni fa. I grandi rami di palma sono ancora lì, lungo la navata, a formare una sorta di volta accogliente per la processione d’inizio della Messa. L’immutabilità del calendario liturgico cristiano porta un po’ di stabilità nel caos, tanto che alcuni credevano che le foto risalissero ad anni precedenti – voce che padre Iusuf Assad, vicario della parrocchia latina, ha dovuto smentire su Facebook.
Chi guarda attentamente le foto nota che i sorrisi dei parrocchiani riescono appena a mettere in ombra i volti infossati, tirati, emaciati… «Nonostante la guerra e i suoi pericoli, la parrocchia della Sacra Famiglia ha celebrato la Domenica delle Palme nel modo più modo solenne», commenta il Patriarcato latino di Gerusalemme, salutandone il «coraggio» e «l’incredibile testimonianza di fede».
Circa 600 persone vivono da quasi sei mesi nel recinto di questa chiesa diventata «rifugio, ospedale e cimitero», per usare le parole del parroco, padre Gabriel Romanelli, rimasto lontano dai suoi è bloccato a Gerusalemme dal 7 ottobre scorso: «Padre Iusuf Assad, il mio vicario a Gaza, mi racconta che tutto intorno non c’è che distruzione: si sente odore di morte; è il caos».
Lenticchie, riso e fagioli
A qualche centinaio di metri dalla parrocchia della Sacra Famiglia, altre 300 persone hanno trovato rifugio presso la parrocchia ortodossa di San Porfirio. «Quasi il 90 per cento della comunità cristiana si trova nel nord della Striscia di Gaza», sottolinea George Akroush, direttore dell’Ufficio per i progetti di sviluppo del Patriarcato latino che coordina gli aiuti forniti alla comunità.
Da metà gennaio i camion degli aiuti umanitari non raggiungono più il nord dell’enclave. I mercati sono vuoti. I prezzi sono aumentati di dieci volte e le riserve che la parrocchia aveva accumulato in previsione di tempi difficili, si stanno prosciugando. Grazie all’aiuto economico del Patriarcato latino di Gerusalemme, la parrocchia fornisce tre pasti alla settimana ai suoi rifugiati: «Spesso sono lenticchie, fagioli bianchi o riso, a volte con verdure. Ci danno anche il pane», spiega Diana, una 24enne cattolica.
«I rifugiati devono gestire oculatamente le loro porzioni per sopravvivere. Non mangiano carne da due mesi e tutti hanno perso peso», sottolinea George Akroush.
Nei giorni in cui la parrocchia non cucina, i profughi vanno al mercato del quartiere. «Vediamo cosa c’è, ma tutto è troppo caro», racconta Diana, che ammette di soffrire a volte la fame prima di spiegare che ha cominciato a mangiare anche nuove verdure, raccolte nelle vicinanze a seconda della stagione: malva, cicoria, bietola… «Quando la situazione sembra tranquilla, c’è chi si avventura fino alla propria casa, per verificarne le condizioni, e poi ritorna. La nostra di casa è stata distrutta». Secondo i dati raccolti dal Patriarcato latino, solo 10 case cristiane sono ancora in piedi, soprattutto nel sud della Striscia di Gaza.
Depressione
Padre Gabriel, che è in contatto quotidiano con i suoi parrocchiani, è preoccupato per il disagio psicologico che sente crescere nelle ultime settimane: «C’è depressione. Come non provare tristezza o disperazione di fronte a tante prove?». La comunità cristiana piange 30 morti, di cui 17 uccisi nel bombardamento di un edificio accanto alla parrocchia ortodossa e due nel cortile della chiesa latina. «Le altre 11 persone, dopo essere rimaste ferite, non sono arrivate in tempo all’ospedale», spiega padre Gabriel.
«Viviamo come in un corpo senz’anima», dice Diana in uno dei suoi messaggi, chiedendosi: «Perché il mondo resta in silenzio su ciò che sta accadendo a Gaza, in particolare il mondo arabo? Cosa hanno fatto i bambini di Gaza per soffrire questa guerra e questa fame?».
«La cosa peggiore è l’impasse attuale e la mancanza di certezza sulla durata di questa guerra –, continua padre Gabriel –. Il nostro personale religioso è stanco. Dobbiamo gestire le famiglie. Immaginate! Essere confinati con 600 persone nello stesso posto per sei mesi, crea inevitabilmente tensioni».
La via crucis di Gaza
Nonostante tutto, i cristiani che è stato possibile contattare dimostrano una fede incrollabile: «Crediamo nella Provvidenza di Dio», assicura suor Nabila Saleh, direttrice della scuola delle suore del Rosario a Gaza, danneggiata dai bombardamenti. «Più grande è la croce, più vicina è la gioia della risurrezione – scrive George Antone, direttore amministrativo della Caritas, sfollato nella parrocchia latina con la moglie Nisreen e i tre figli –. «Ogni volta che chiamo, mi dicono: “Ringraziamo Gesù”», riferisce ammirato padre Gabriele. «Hanno fiducia nel fatto che Gesù li salverà».
Padre Iusuf tiene molto alla continuità della vita liturgica e spirituale della sua comunità: quotidianamente viene recitato il rosario; dal 7 ottobre sono stati celebrati due battesimi e le prime comunioni, e nuovi chierichetti sono stati formati in vista della Settimana Santa. «In questa vigilia di Pasqua dobbiamo pregare per la fine della Via Crucis per la comunità di Gaza, e sperare che la gioia della risurrezione sia insieme sociale e spirituale». Diana, ha una sola preghiera: «Che la guerra finisca senza perdere nessuno dei miei cari, e che io possa lasciare Gaza».