Faysal Shawa, ingegnere civile da trent’anni a capo di un’impresa di costruzioni a Gaza, ha visto i palazzi che aveva eretto sgretolarsi insieme alla sua casa sotto le bombe israeliane e oggi è tra i rifugiati a Khan Yunis. Osama Amro, installatore di impianti fotovoltaici, dal 7 ottobre non esce da Ramallah per paura della violenza dei coloni e di non riuscire a rientrare a casa per l’aumento dei posti di blocco nei Territori occupati. Shadha Musallam, una biologa di Nablus esperta in tecnologie agricole, dopo il 7 ottobre non è più potuta partire per partecipare a un concorso in Marocco per il quale si era qualificata mesi prima e ha visto così sfumare la possibilità di ricevere un finanziamento di 500mila dollari per la sua start-up. Sono solo alcune delle storie che filtrano dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania sull’impatto economico che il pogrom di Hamas e la reazione israeliana stanno provocando su milioni di palestinesi (e di israeliani): alla fine del 2023, secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro, erano già andati in fumo 468mila posti di lavoro tra Striscia di Gaza (192mila, il 66 per cento degli occupati) e Cisgiordania (276mila, il 32 per cento di chi lavora), in aumento rispetto alle prime stime di 390mila e corrispondenti a una perdita di almeno 20,5 milioni di dollari di redditi da lavoro.
I palestinesi di nuovo dipendenti dagli aiuti internazionali
La perdita dell’occupazione per centinaia di migliaia di lavoratori renderà i palestinesi ancora più poveri e quindi di nuovo dipendenti da quegli aiuti internazionali dai quali negli ultimi vent’anni si erano progressivamente smarcati, segnala un rapporto della Banca Mondiale. Il brusco calo del reddito, il commercio e l’attività privata in diminuzione, l’aumento delle restrizioni alla mobilità e i tagli temporanei ai salari colpiranno duramente i consumi, attualmente l’unico motore del rimbalzo economico palestinese dopo lo choc della pandemia da Covid-19. L’attuale crisi insomma sta esacerbando le preesistenti debolezze strutturali, sulle quali trent’anni di tentativi di correzione da parte della comunità internazionale hanno sortito scarsi effetti.
«L’occupazione e le relative restrizioni – si legge nel rapporto – hanno colpito a lungo sia la crescita potenziale e attuale che la sostenibilità fiscale, così come hanno fatto l’impossibilità di accesso alle risorse naturali e il controllo israeliano su un’ampia parte dei territori della Cisgiordania, compresa l’area C. Queste condizioni hanno imposto strozzature all’attività economica e allo sviluppo molto prima del conflitto ora in corso. La mancata realizzazione da parte dell’Autorità palestinese delle necessarie riforme, a cominciare da quella fiscale, hanno impedito all’economia palestinese di sviluppare il proprio potenziale. Anche i tentativi da parte della comunità internazionale di affrontare questi nodi strutturali si sono dimostrati insufficienti».
La fiscalità in crisi
Sui fronti fiscale e istituzionale l’Autorità palestinese ha davanti a sé «sfide monumentali» per garantire funzioni di base in assenza di risorse fiscali. Se Israele prolungasse il blocco del trasferimento delle tasse che riscuote per conto dell’Autorità palestinese – o se ne riducesse il flusso – «verrebbe colpito duramente il contratto sociale che lega i palestinesi: l’Autorità infatti non sarebbe in grado di garantire né i salari dei dipendenti pubblici né i servizi essenziali».
Secondo le stime, il gettito mensile degli introiti fiscali è pari a circa 188 milioni di dollari e rappresenta, insieme agli aiuti internazionali, la principale fonte di finanziamento per l’Autorità palestinese: tali fondi vengono utilizzati per gli stipendi dei 140mila impiegati del settore pubblico (compresi 19mila addetti alla sicurezza nella Striscia di Gaza che sono stati tagliati fuori dalle forze dell’ordine quando Hamas ha vinto le elezioni nel 2006) e per 53mila pensionati. La Banca mondiale stima che a causa della recessione e dei minori introiti fiscali ci sarà una contrazione di almeno il 13 per cento delle entrate. Se anche l’Autorità palestinese trovasse il modo di pagare l’80 per cento dei salari del quarto trimestre 2023 (non pagati dal mese di ottobre), il deficit di bilancio sarebbe comunque di 580 milioni di dollari nel 2023, circa il 3,2 per cento del Pil. In assenza di un cambio di paradigma, avvertono gli economisti, i Territori palestinesi finiranno per essere soggetti a crisi di liquidità strutturali, con conseguente dipendenza dagli aiuti internazionali come unico palliativo nel breve termine.
Il Pil pro-capite a Gaza giù del 27 per cento tra il 2006 e il 2022
Prima del conflitto l’economia palestinese stava già rallentando: nel primo semestre del 2023 la contrazione era del 3 per cento nei Territori palestinesi e del 4,4 per cento a Gaza, a causa del brusco calo nell’agricoltura e nella pesca dopo l’introduzione da parte di Israele, nell’agosto 2022, di ulteriori restrizioni alla vendita di prodotti di Gaza alla Cisgiordania. Oggi, dopo oltre cento giorni di bombardamenti, l’estensione dei danni è senza precedenti: è andato distrutto oltre il 60 per cento delle infrastrutture di telecomunicazioni e delle strutture sanitarie ed educative, così come il 70 per cento delle sedi commerciali, insieme ad oltre la metà delle strade. Dalla fine di ottobre c’è stato un crollo del 90 per cento della capacità produttiva nella Striscia: le bombe israeliane non hanno risparmiato neppure i fornai. L’unico mulino rimasto attivo nella Striscia, rimarcano gli economisti della Banca mondiale, non sta funzionando per la mancanza di elettricità, spingendo alla fame oltre 1,5 milioni di persone. La povertà era già endemica a Gaza prima del 7 ottobre, con un tasso di disoccupazione del 45 per cento, che sfondava quota 60 per cento per quella giovanile. Tra il 2006 e il 2022 il Pil pro-capite a Gaza era già crollato del 27 per cento, giungendo a 1.257 dollari all’anno, uno dei più bassi del mondo: nel 2023 stime non ufficiali indicavano il 60 per cento della popolazione in povertà e l’80 per cento dipendente dagli aiuti internazionali (soprattutto i minori, che costituiscono un terzo dei gazesi).
In fumo 210mila posti di lavoro in Cisgiordania
Mentre la povertà multidimensionale cresce a Gaza con l’85 per cento dei lavoratori che ora è disoccupato, gli effetti avversi su tutti i servizi sociali di base si stanno ripercuotendo anche in Cisgiordania dove il tasso di disoccupazione è schizzato dal 13 al 25 per cento, con la perdita di circa 210mila posti di lavoro di palestinesi, che lavoravano in Israele o nelle colonie, cancellati dal crollo del turismo, del commercio e dalla mancata raccolta delle olive. Questi circa 210mila costituivano il 20 per cento degli occupati della Cisgiordania. Il giro di vite da parte di Israele con nuove restrizioni alla mobilità insieme all’aumento di violenza da parte dei coloni, con 300 palestinesi uccisi nei Territori occupati dal 7 ottobre ad oggi, colpiscono almeno 67mila lavoratori che non sono più stati in grado di raggiungere il posto di lavoro.
La Banca mondiale prevede una perdita del 3,7 per cento del Pil per l’economia palestinese nel 2023: corrisponde ad un calo di oltre 1,5 miliardi di dollari in termini di mancati redditi per i lavoratori, profitti perduti per le aziende e mancate tasse. Secondo gli economisti questo calo comporterà la cancellazione dei benefici ottenuti in Cisgiordania dalla fine della pandemia con i programmi di protezione sociale, ora messi in ginocchio dalla crisi fiscale: la povertà nei Territori sfonderà il tasso del 26,5 per cento raggiunto nel 2020, al culmine delle restrizioni dovute alla pandemia.
Per mitigare questa tragedia e gli effetti senza precedenti sul tessuto economico gli economisti chiedono la fine delle ostilità per salvare vite e avviare la ricostruzione, il versamento immediato delle tasse arretrate nelle casse dell’Autorità palestinese, la rimozione degli ostacoli all’attività privata in Cisgiordania e a Gaza, massicci aiuti internazionali durante e dopo l’attuale crisi umanitaria per far fronte al buco di bilancio di 580 milioni di dollari e per sostenere l’Autorità palestinese.
Blinken: i Paesi del Golfo non ricostruiranno Gaza senza uno Stato palestinese
A margine del World Economic Forum di Davos, nei giorni scorsi, il segretario di stato americano Antony Blinken ha ribadito che le monarchie del Golfo non si faranno carico della ricostruzione di Gaza senza un piano per la nascita di uno Stato palestinese e con il rischio di vedere nuovamente distrutta dai bombardamenti israeliani la Striscia di Gaza pochi anni dopo averla ricostruita.