Amal Abuhajar è una insegnante palestinese di francese nella scuola cattolica delle suore del Rosario di Gaza. Dopo due evacuazioni, ora è rifugiata in una scuola dell’Unrwa a Rafah con suo marito e i sei figli. Racconta l’inferno di una quotidianità fatta di carenze, code, paura e condizioni insalubri.
«Il 7 ottobre è stata una giornata nera. Non siamo stati noi a decidere questa guerra e da allora viviamo i giorni più terribili della nostra vita». Con questo messaggio datato 22 dicembre e scritto in francese, come tutti i seguenti, Amal Abuhajar, insegnante di francese alla scuola del Rosario di Gaza, inizia il racconto di questi ultimi tre mesi, che hanno stravolto la sua vita.
«Avevo una grande casa a est di Khan Younis, con un grande giardino verde e ben tenuto. Con rose di tutti i colori, alberi che producono olive, datteri, guaiave, arance, limoni, uva e clementine.
Tutti i vicini se ne sono andati il 7 ottobre. Io non volevo lasciare la mia casa. Ma ho vissuto la notte peggiore della mia vita a causa dei bombardamenti. I bambini non facevano che piangere. Alla fine, siamo partiti alle 7 del mattino dell’8 ottobre per andare nel mio vecchio appartamento a Khan Younis. È stato straziante lasciare la casa.
Cercavo la calma, ma lì tutto era più drammatico, più tragico. Mio figlio di sette anni mi ha detto: «Qui ascoltiamo e vediamo la morte, mentre a casa la ascoltavamo soltanto». E questo è vero. Nel pomeriggio dell’8 ottobre, l’occupazione israeliana ha ucciso decine di bambini e donne davanti ai nostri occhi. Un’abitazione di sette piani è andata in pezzi.
Sono sicura di aver perso le mie rose…
Le urla, le ambulanze, i rumori di morte e di paura, gente che correva… Tutto questo davanti ai nostri occhi, davanti ai nostri figli. Mi sentivo impotente. Che cosa potevo fare? Avevo paura, piangevo sempre. Avevo la sensazione che ogni notte sarebbe stata l’ultima.
Dal 7 ottobre non c’è più alcun significato nella vita. Ho perso tutto: la mia casa, il mio lavoro, i miei studenti… sono sicura di aver perso le mie rose… Che aspetto ha la mia casa? Come stanno i miei uccelli? Questa guerra è come un’orribile pièce teatrale sezna fine. Questa è la nostra vita quotidiana qui a Gaza. Il mattino è nero come la notte. La notte è un incubo.
Non c’è elettricità, niente acqua, niente internet… Cerchiamo ogni giorno un modo per sopravvivere, per salvare i nostri figli. Mio marito va dal fornaio alle tre del mattino a prendere il pane… Fa la fila per 10 o 15 ore e riesce a malapena a sfamare i bambini. Poi prende la bicicletta per andare a comprare l’acqua. Anche lì deve fare la fila per ore prima di portarne un po’».
Tre giorni dopo la fine della tregua, il 4 dicembre, Amal e la sua famiglia hanno ricevuto l’ordine di evacuare il quartiere in cui si trovavano a Khan Younis.
«Siamo andati a Rafah. Abbiamo dormito in macchina, per mancanza di un posto altrove. Dopo due giorni di ricerche, abbiamo trovato posto presso la scuola elementare “B” dell’Unrwa, quella per le bambine. Da allora, abbiamo condiviso la nostra sofferenza con duemila sconosciuti. Condividiamo le code della vita quotidiana: quella per caricare il cellulare in biblioteca, per lavarsi, quella per ritirare le scatolette…».
Tre lattine e tre bottiglie d’acqua a settimana
«A Rafah non c’è abbastanza cibo rispetto al numero di persone. Tutti quelli che abitavano al nord e a Khan Younis sono rifugiati lì. Dato che ho sei figli, ci sono concessi tre prodotti in scatola e tre bottiglie d’acqua ogni settimana. Ci bastano appena per un giorno. Quindi devi integrare altrove, ma tutto è troppo costoso. Non riceviamo lo stipendio dal 7 ottobre. La gente vende la legna degli alberi lungo la strada per alimentare i forni dove viene cotto un po’ di pane».
«Il più piccolo dettaglio della nostra vita quotidiana, anche i bisogni più semplici, tutto è complicato», scrive Amal, che non ha avuto accesso a una doccia adeguata da quando è arrivata alla scuola.
«Ho bisogno di piangere, di urlare. A volte vado al mare da sola e piango fino al mattino. Sono stanca, triste, odio il sole del mattino, perché è sinonimo di nuove sofferenze. Di notte non c’è luce, tranne quella dei bombardamenti. Il suono delle donne e dei bambini che piangono, dei feriti che soffrono per il freddo e le malattie.
Onestamente prendo dei farmaci, così posso dormire due o tre ore a notte. Sai come abbiamo paura del rumore degli aerei? Sai che cosa si prova a sentire i bombardamenti? Le minacce quotidiane che viviamo? Qui a Gaza aspettiamo la morte. Aspettiamo la fine e preghiamo di morire insieme».
Il 26 dicembre Amal riprende la tastiera: «Ieri gli israeliani hanno minacciato di bombardare la libreria accanto alla nostra scuola. La gente ha cominciato ad andarsene, molti dormivano per strada… Ho portato i miei figli a casa di un’amica, ma non abbiamo potuto portare le nostre cose per dormire. Fa freddo, molto freddo di notte».
La libreria non è bombardata. Amal deve lasciare la casa della sua amica. «Camminiamo continuamente a sud-ovest di Rafah», ha scritto il 27 dicembre. Il giorno seguente, lei e i suoi figli sono tornati alla scuola dove c’è un problema di risalita delle acque reflue, a causa della mancanza di elettricità che attiva le pompe per la bonifica delle acque. «È terribile e disgustoso – confida Amal –. Comincio a cercare un altro posto… Siamo tutti malati. Le scuole non sono adatte alla vita delle persone».