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Israeliani e sciiti, in guerra ma non troppo

Elisa Pinna
15 dicembre 2023
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Non solo nella Striscia di Gaza. Anche nel nord di Israele si combatte, in schermaglie d'artiglieria con le milizie di Hezbollah. Nelle zone di confine israelo-libanese migliaia di civili hanno dovuto evacuare e si contano decine di morti. Tutte le parti in campo, però, cercano di contenere i danni. Iran incluso.


Nonostante i toni bellicosi di alcuni esponenti del governo israeliano, la prudenza sembra prevalere per il momento nel cosiddetto fronte Nord del conflitto in corso in Terra Santa, ovvero al confine tra Israele e Libano. È vero che, dal 7 ottobre scorso, l’esercito israeliano, da un lato della frontiera, e la milizia sciita di Hezbollah dall’altro si combattono quotidianamente a colpi di mortaio, lanci di missili ed attacchi di droni. Tuttavia, secondo fonti dell’Unifil – la forza armata di interposizione delle Nazioni Unite, che dal 2006, dopo il ritiro delle truppe di invasione israeliane, presidia la parte meridionale del Libano – le azioni militari si svolgono in un’area circoscritta di 5-7 chilometri a nord e a sud della linea di confine, conosciuta anche come linea blu.

Andrea Tenenti, portavoce dell’Unifil, ha riferito, un paio di giorni fa, che solo «sporadici incidenti» e «molto, molto localizzati» sono avvenuti al di fuori della zona delimitata. «Ciò dimostra, in qualche modo, che non vi è un reale desiderio di allargare il conflitto». Anche se, dice Tenenti, basta un niente per far saltare il livello controllato di scontro: un calcolo sbagliato, una reazione troppo dura. Da entrambe le parti, in un raggio di sette chilometri a nord e a sud della frontiera, tracciata per un lungo tratto dal fiume Litani, sono state evacuate le popolazioni civili, decine di migliaia di persone. In Israele, gli oltre 25mila abitanti della cittadina di Kiryat Shmona, sono stati trasferiti, da metà ottobre, in alberghi e residence di Tel Aviv. L’abitato è ora presidiato dall’esercito israeliano che occupa tutta la zona a ridosso del Libano. Il villaggio di Rameh si trova a dieci chilometri a sud dal confine. Qui la popolazione di circa 9mila abitanti arabo-israeliani (oltre il 51 per cento cristiani, il 25 per cento musulmani e i restanti drusi) è rimasta. «Dopo di noi ci sono solo soldati», spiega a Terrasanta.net, abuna Raed, parroco della chiesa cattolica di Sant’Antonio. «Pur essendo così vicini a un fronte di combattimento, la situazione qui è tranquilla», ci conferma. Dalla parte libanese, sono concentrati i combattenti di Hezbollah, armati e finanziati dall’Iran. Alcuni villaggi si sono svuotati, in altri però sono rimaste molte famiglie, soprattutto sciite. Dal 7 ottobre, in territorio libanese, gli attacchi israeliani hanno causato la morte di almeno 120 persone: 85 miliziani di Hezbollah, ed alcune decine di civili, tra cui tre giornalisti. In Israele, ha perso la vita una dozzina di persone, soprattutto militari.

Hezbollah né l’Iran appaiono intenzionati a trasformare i combattimenti di confine – usati dichiaratamente come un deterrente tattico per distogliere forze militari israeliane da Gaza e dalla Cisgiordania – in una guerra regionale. Anzi, un allargamento internazionale sembra rappresentare, sia per Hezbollah che per Teheran, una minaccia da esorcizzare.

Hezbollah mira, sì, ad accreditarsi come un movimento che appoggia la causa palestinese ma, allo stesso tempo, non vuole essere accusato di trascinare il Libano in guerra. Non bisogna dimenticare che Hezbollah è un partito politico libanese, oltre che una milizia armata, e deve fare i conti con una complessa situazione interna. Il Libano, pur solidale nella sua unanimità con i palestinesi di Gaza, non potrebbe mai permettersi un nuovo conflitto con Israele, a causa della sua estrema fragilità economica, politica e sociale.

Anche l’Iran, storico paladino della causa palestinese, non ha alcun interesse a regionalizzare il conflitto, costringendo gli Stati Uniti – per proteggere Israele – a uno scontro militare diretto in Medio Oriente. I giornali iraniani sono pieni di elogi per la resistenza di Hamas e del popolo palestinese, parlano di un riavvicinamento tra Arabia Saudita e Repubblica islamica nei riguardi del «nemico sionista», e sottolineano l’isolamento di Israele sul piano internazionale. Oltre ciò non si va, e la dirigenza della Repubblica islamica è stata molto netta nell’affermare la propria estraneità all’attacco del 7 ottobre contro Israele condotto da Hamas. Del resto anche Hezbollah ha, in qualche modo, preso le distanze affermando che quelle decisioni sono state assunte in piena autonomia dalle milizie palestinesi, senza informare altri.

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