(g.s.) – Sono trascorsi poco più di due mesi dal «sabato nero» che, il 7 ottobre scorso, ha segnato l’inizio di quest’ultima sanguinosa fase nelle relazioni tra israeliani e palestinesi. Da quel giorno nuove trincee di odio sono state scavate, mentre le ferite nelle coscienze collettive dei due popoli si sono fatte più profonde. Non possiamo ancora immaginarne tutte le conseguenze future.
Intanto è la popolazione della Striscia di Gaza a pagare il prezzo più alto. Le armi sono tornate a tuonare dopo la breve tregua di pochi giorni – dal 24 al 30 novembre – che ha consentito lo scambio di 105 ostaggi di varie nazionalità – condotti dalle milizie palestinesi dentro la Striscia – con 240 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane (i cui posti in cella sono stati occupati da altri palestinesi di Cisgiordania o della Striscia di Gaza arrestati e messi in detenzione amministrativa, giorno dopo giorno, nelle ultime settimane).
Gelo, fame e malattie
Mentre sul territorio israeliano continua, sia pure con minore intensità, la pioggia di razzi da Gaza, dal Libano meridionale e dallo Yemen, la conta delle vittime tra la popolazione gazese è giunta ormai a oltre 18mila morti (7 su 10 sarebbero donne e minori), tra i quali anche almeno 63 giornalisti, secondo lo statunitense Comitato per la protezione dei giornalisti. Pure i soldati israeliani continuano a morire: una novantina sono ormai i caduti in combattimento dall’inizio dell’invasione della Striscia di Gaza, mentre 137 ostaggi restano ancora da liberare.
Dopo aver assunto il controllo del nord della Striscia, e ottenuto la resa di decine di combattenti, gli israeliani ora si stanno concentrando sulla città di Khan Yunis, considerata una roccaforte di Hamas.
Nell’estremo sud di quel lembo di terra è ormai concentrata gran parte della popolazione civile, inclusi i molti sfollati dal nord che hanno obbedito all’ordine di evacuazione impartito dalle forze armate israeliane.
Nella Striscia tutti vivono ormai in condizioni di privazioni estreme. La giornalista del quotidiano Haaretz Amira Hass, nei giorni scorsi, ha provato a mettere in fila alcuni dati: il territorio gazese ha una superficie di 365 chilometri quadrati e una densità di 6.100 persone per chilometro quadrato. Ora, però, con l’assalto a Khan Yunis la popolazione ha dovuto concentrarsi, a sud, in una porzione ancora più piccola: 110 chilometri quadrati, dove a questo punto la densità è di quasi 18.200 persone per chilometro quadrato. In una simile situazione anche le infrastrutture non ancora danneggiate dai bombardamenti sono messe a dura prova: strade, rete elettrica, sistema fognario.
L’inverno non è clemente neppure da queste parti e le tante persone che sopravvivono all’addiaccio o in ripari di fortuna patiscono infezioni agli apparati respiratorio e gastrointestinale e sono esposte a contagi, parassiti e malattie della pelle. Per non dire della carenza di cibo e di igiene personale.
Per una nuova tregua umanitaria
Nonostante gli sforzi del personale sanitario rimasto sul campo e degli operatori di organizzazioni che fanno capo alle Nazioni Unite – come l’Unrwa e l’Unicef –, della Croce Rossa o di varie organizzazioni non governative, le cure mediche prodigate sono inadeguate. Mancano farmaci essenziali e la carenza di anestetici obbliga i medici a curare i feriti gravi senza alcun analgesico o sedazione.
La Giordania ha inviato personale medico e allestito ospedali da campo nell’area di Rafa. Anche Emirati Arabi Uniti e Italia intendono seguire le sue orme. Interventi opportuni ma insufficienti, data la gravità della situazione.
In visita alla Striscia nei giorni scorsi, la presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa, Mirjana Spoljaric, ha dichiarato che «il livello di sofferenza è intollerabile. È inaccettabile che i civili non abbiano luoghi sicuri; con un assedio militare in atto è oggi impossibile anche un’adeguata risposta umanitaria».
Toni ancora più drammatici echeggiano nelle parole del commissario generale dell’Unrwa, Philippe Lazzarini, il quale l’8 dicembre ha comunicato di aver inviato, il giorno prima, una lettera la presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per comunicare l’estrema difficoltà in cui l’agenzia si trova ad operare «sotto i bombardamenti costanti e un ridotto e irregolare afflusso di generi alimentari e altre forniture umanitarie». L’Unrwa, denuncia Lazzarini, ha anche perso 130 membri del suo personale, mentre il 70 per cento del personale è stato costretto, più e più volte, a sfollare. Lazzarini ha chiesto agli Stati membri dell’Onu di adoperarsi per il raggiungimento di una tregua umanitaria nella Striscia.
Il veto statunitense
Ci ha provato, un’altra volta invano, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riunitosi l’8 dicembre nel Palazzo di Vetro a New York su impulso del segretario generale António Guterres. Il Consiglio ha preso in esame una proposta di risoluzione introdotta dagli Emirati Arabi Uniti e appoggiata da 97 Stati. La bozza chiedeva l’immediata sospensione dei bombardamenti, il rilascio senza condizioni degli ostaggi ancora trattenuti nella Striscia e il libero accesso degli aiuti e operatori umanitari.
Il veto opposto dal voto contrario degli Stati Uniti (che, con la loro costante copertura all’Onu, si confermano alleati impareggiabili di Israele) ha impedito di adottare la risoluzione. Degli altri quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, il Regno Unito si è astenuto mentre Cina, Francia e Russia hanno votato a favore, come i restanti 10 membri non permanenti dell’organo.
Per quanto ancora si andrà avanti? Le forze armate israeliane stanno conseguendo molti dei loro obiettivi nella Striscia di Gaza, ma – a prescindere da qualunque considerazione etica – la guerra costa e ha pesanti ripercussioni anche sull’economia dello Stato ebraico (basti solo pensare alle falle negli organici di molte imprese per via delle centinaia di migliaia di riservisti richiamati in servizio effettivo). Ogni giorno che passa, una campagna militare di simili proporzioni – con i pesanti costi umani che comporta – è anche sempre più difficile da far digerire alle altre nazioni, vicine e lontane.
Il proposito di annichilire Hamas – e non solo ridurlo all’impotenza sul piano militare – a molti pare irrealistico. Anche perché il movimento islamista ha guadagnato popolarità tra i connazionali con le azioni del 7 ottobre scorso che hanno prepotentemente riproposto all’attenzione del mondo intero la questione palestinese. Sarà difficile non tenerne conto nel dopoguerra, quando verrà.
Costruire il futuro
In un’intervista televisiva trasmessa l’8 dicembre dall’emittente statunitense Bloomberg, il primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese Mohammad Shtayyeh ha dichiarato che il suo governo sta lavorando con l’amministrazione Biden per immaginare un futuro che, a suo avviso, non potrà fare a meno di includere Hamas.
Che ne sarà domani della Striscia di Gaza e dei suoi cumuli di macerie? Chi la governerà? Chi guiderà la ricostruzione? In quali aree potrà vivere, o non vivere, la sua popolazione? Di quanta libertà di movimento potrà godere? Quali livelli di interazione con Israele e con il resto del mondo le saranno riconosciuti? In altre parole, che prospettive si vogliono offrire a quegli oltre due milioni di esseri umani?
Dopo i cannoni, i bombardieri, i missili e i carrarmati – persino dopo le manifestazioni, le preghiere e i digiuni per la pace – occorre che parli la politica, la buona politica, intesa come progettazione e costruzione di una casa comune. Bisognerà accantonare i massimalismi e predisporsi ai necessari compromessi, senza lasciar passare altre generazioni, senza far scorrere altro sangue e sacrificare innumerevoli giovani vite sugli altari dei risentimenti e delle ideologie.