Mentre la guerra Israele-Hamas sembra non trovare tregua, e la Striscia di Gaza è precipitata in una crisi umanitaria senza precedenti, anche nell’Angelus domenicale del 19 novembre, papa Francesco è tornato ad invocare la pace per l’Ucraina e per Israele e Palestina. «Continuiamo a pregare – ha detto – per la martoriata Ucraina e per le popolazioni di Palestina e Israele. La pace è possibile. Ci vuole buona volontà. La pace è possibile. Non rassegniamoci alla guerra! E non dimentichiamo che la guerra sempre, sempre, sempre è una sconfitta. Soltanto guadagnano i fabbricanti di armi».
Del tema della pace in chiave francescana, si è occupato a Benevento lunedì 13 novembre il Custode di Terra Santa fra Francesco Patton, in un incontro intitolato Trovare e percorrere le vie della pace, organizzato dal Centro Studi del Sannio e dalla Provincia dei Frati Minori del Sannio e dell’Irpinia.
Riprendiamo da quell’intervento (intitolato «Il Signore ti dia la pace». Francesco di fronte ai conflitti del suo tempo e del nostro) alcuni passaggi relativi alla purificazione del «linguaggio» come elemento necessario ad un cambiamento di mentalità necessario alla pace. Quando infatti il linguaggio è violento e prevaricante – il padre Custode dice «disumanizzante» – diventa difficile trovare un terreno comune per il dialogo.
Per un linguaggio disarmato
«Per quanto riguarda l’aspetto del linguaggio – spiega Patton – vale la pena ricordare anzitutto che Francesco d’Assisi ritiene necessario un cambiamento di linguaggio a livello profondo: elimina la parola “nemico” in riferimento a qualsiasi persona e la utilizza solo per il proprio concreto io egoista. L’altro non è mai nemico, ma sempre e solo fratello».
Il tema del linguaggio è fondamentale per poter inaugurare e coltivare una cultura della pace: linguaggio che nasce dal cuore, cioè dall’interiorità profonda, linguaggio che si traduce in gesti, parole e atteggiamenti. Oggi ciò che si constata è la crescita di un linguaggio violento, che si traduce poi in atteggiamenti e azioni violente, da una parte e dall’altra».
Le parole sono come pietre, verrebbe da dire. Per questa ragione fra Patton, invita a fare attenzione a come e a cosa si dice.
«C’è un linguaggio che de-umanizza e viceversa un linguaggio che ri-umanizza. La de-umanizzazione dell’altro del “nemico” serve per legittimare la sua eliminazione attenuando il senso di colpa personale e collettivo: è ciò che fecero il nazismo e il fascismo per giustificare prima la limitazione delle libertà, poi l’internamento e infine lo sterminio degli ebrei. Si cominciò con le vignette satiriche e si finì con le camere a gas e i forni crematori. La de-umanizzazione avviene anche quando vengono chiamati “animali” i terroristi di Hamas. Di fatto è molto meno colpevolizzante uccidere degli animali che delle persone umane!».
L’esempio opposto – spiazzante – è quello fornito della signora Yocheved Lifshitz (85 anni), una delle quattro donne rilasciate dai terroristi che il 7 ottobre scorso la sequestrarono e condussero nella Striscia di Gaza insieme ad altre 240 persone. Un episodio che ha fatto il giro del mondo: «Al momento del suo rilascio a Gaza (il 24 ottobre – ndr), si gira verso il terrorista di Hamas che la sta liberando, cerca la sua mano per stringerla e gli dice: “Shalom”… È quello che ha cercato di fare il cardinal Carlo Maria Martini, a Milano, negli anni del terrorismo, andando in carcere a visitare i terroristi delle Brigate Rosse e di altri gruppi, con la convinzione che in loro ci fosse un’umanità da far risorgere».
Sofferenza e compassione
«Questo tema della de-umanizzazione e della ri-umanizzazione attraverso il linguaggio – ha concluso il Custode – è per me molto importante ed è più diffuso e comune di quanto si creda. Ogni forma di bullismo, da quello scolastico a quello politico si serve del linguaggio de-umanizzante per giustificare le proprie azioni».
Questa capacità di ri-umanizzare l’altro, porta con sé un ulteriore aspetto: il saper riconoscere il dolore dell’altro e saper dare dignità al dolore dell’altro. «Un passaggio fondamentale per trasformare l’esperienza della propria sofferenza nella compassione». Che diventa la vera chiave di volta di un cammino di conversione e di pace.
«Contrariamente a quello che uno potrebbe immaginare, la semplice esperienza della sofferenza non rende migliori. Particolarmente l’esperienza della sofferenza che ci viene inferta dagli altri può introdurre in noi la sostituzione delle virtù umane analoghe alle teologali con il loro opposto: la fiducia viene sostituita dalla sfiducia, la speranza si tramuta in disperazione e l’amore si trasforma in odio fino all’eliminazione dell’altro. L’esperienza della sofferenza subita può portare all’indifferenza, alla chiusura, al rifiuto della vita. Solo se non resto chiuso nella mia sofferenza (cosa più facile a dirsi che a farsi) e mi apro alla sofferenza dell’altro posso passare dall’odio, dal rifiuto e dalla chiusura alla compassione».