Oggi sono assai pochi gli israeliani che dicono di fidarsi del premier Netanyahu. Vien da chiedersi come possa Israele essere da un lato così compatto e solido e dall’altro così volatile nella sfera politica.
Non si può parlare di Israele, oggi, senza che l’ombra cupa del violento attacco di Hamas del 7 ottobre scorso e dell’ancor più devastante reazione dell’esercito israeliano si proietti su qualunque argomentazione. Vorrei però provare, qui, non ad astrarmi dagli eventi correnti (sarebbe impossibile e ingiusto) ma ad affrontare un aspetto che il rumore dei razzi e delle cannonate sta oscurando.
Se si prova a dare un’occhiata ai numerosi sondaggi che testano le idee e i sentimenti degli israeliani in questo momento orribile, un dato emerge costante: la profonda sfiducia nel premier Benjamin “Bibi” Netanyahu. L’università Bar Ilan di Tel Aviv, per esempio, ha appena pubblicato un sondaggio da cui emerge che, tra gli israeliani ebrei (il 27 per cento della popolazione di Israele viene considerata non ebrea), solo il 4 per cento si fida di ciò che dice Netanyahu. Percentuale che si alza in modo quasi impercettibile (6 per cento) quando la domanda viene rivolta agli israeliani ebrei che si riconoscono nell’attuale coalizione di governo.
Altro sondaggio, questa volta di Maariv, il secondo quotidiano più venduto in Israele. Domanda: «Chi votereste se le elezioni politiche si tenessero oggi?». Dalle risposte emerge che il Likud, cioè il partito di Netanyahu, vedrebbe quasi dimezzati i suoi seggi alla Knesset (da 32 a 18), mentre il Partito di unità nazionale guidato da Benny Gantz andrebbe a oltre il triplo (dagli attuali 12 a 39). Alla domanda «Meglio Netanyahu o Gantz come capo del governo?», il 27 per cento ha votato per Netanyahu contro il 49 per cento che ha scelto Gantz.
Viene spontaneo pensare: certo, con quello che è successo il 7 ottobre… Vero. Però giusto un anno fa Bibi Netanyahu ha portato l’estrema destra al governo scalzando proprio il blocco guidato da Benny Gantz e Yair Lapid. E quella era la quinta elezione politica in Israele in tre anni e mezzo. E Netanyahu, un anno fa, non era certo uno sconosciuto, visto che è l’uomo che, nella storia del Paese, ha occupato per più tempo lo scranno del primo ministro. Ci si chiede, quindi, come possa Israele essere da un lato così compatto e solido e dall’altro così volatile nella politica, un aspetto della vita sociale che peraltro viene vissuto con grande passione, qualche volta persino con furore. Personaggi come Golda Meir e Moshe Dayan furono costretti a lasciare il governo a furor di popolo, e non pochi sono gli ex premier finiti sotto inchiesta o i presidenti indagati.
Per quanto poi riguarda Netanyahu, nessuno può dimenticare le massicce proteste che hanno punteggiato, prima del 7 ottobre, questo suo primo anno di governo, le “riforme” che ha proposto e che hanno portato in piazza, per settimane, centinaia di migliaia di israeliani. Il che conferma che il 7 ottobre, con il massacro ordito da Hamas, è stato un trauma per il Paese. Un Paese, però, che già prima di quella data faticava a tenere insieme pulsioni diverse. E che, a leggere gli eventi degli ultimi anni, sempre più fatica. Osservando in controluce, sembra di vedere una società che rischia di dividersi in due.
Un tempo, la lettura più abituale (e banale) era quella che opponeva la parte laica della società a quella religiosa o ultrareligiosa. Questi, però, sono tempi diversi, più sfumati. Si calcola, per esempio, che in Israele vivano circa 300mila persone che, a rigore, non potrebbero dirsi ebree: uomini e donne arrivati negli anni Novanta dall’ex Unione Sovietica, dove “ebreo” era scritto sul passaporto come “armeno” o “ucraino”, una qualifica nazionale per cui bastava avere padre ebreo, mentre la legge ebraica richiede la matrilinearità. Negli insediamenti ebraici dei Territori palestinesi occupati vivono certo molte persone di forte fede religiosa, ma non solo loro. Così come, nelle manifestazioni contro le “riforme” proposte da Netanyahu sfilavano anche ebrei religiosi e non solo laici.
Nei sondaggi attuali, prevedibilmente, ottiene alti indici di fiducia Tsahal, l’apparato militare di Israele. Anche qui nulla di strano, dopo il 7 ottobre. Intanto perché i militari sono stati i primi a far trapelare un forte disagio nei confronti dell’attuale guida politica. E poi pare naturale che un Paese che cambia governo e premier una volta l’anno si affidi psicologicamente a una istituzione come l’esercito che, soprattutto in Israele, è l’emblema della stabilità, dell’efficienza e del coinvolgimento dell’intera società: tutti devono prestare il servizio militare (gli uomini per 36 mesi; le donne, che formano il 34 per cento dei ranghi, per 24) e i privilegi e le esenzioni per la parte ultraortodossa della popolazione (oggi il 13 per cento del totale), ulteriormente ampliati dall’ultimo governo Netanyahu, sono aspramente criticati dagli stessi israeliani.
Si sente spesso dire che Israele è un Paese storicamente assediato, e questo basterebbe a spiegare il legame con le forze armate, che hanno poi spesso mandato al governo, anche ai massimi livelli, i loro ufficiali più intraprendenti.
Resta però da stabilire, come nella famosa storia dell’uovo e della gallina, se questa militarizzazione della psiche collettiva non sia poi una delle ragioni dell’instabilità interna e della conflittualità esterna. Perché un conto è proteggersi dal terrorismo, diritto che non può essere negato ad alcuno. E un altro conto è espropriare le terre altrui, come avviene da decenni in quelli che le stesse autorità di Israele definiscono “territori contesi”. Difficilmente arriveremo a una risposta. L’idea di Israele, oggi casa materiale e spirituale del popolo ebraico, nacque come un esperimento alla fine dell’Ottocento. E, per tanti versi, un esperimento non ha ancora cessato di essere.