«Continuo a pensare alla grave situazione in Palestina e in Israele, dove tantissime persone hanno perso la vita. Vi prego di fermarvi, in nome di Dio: cessate il fuoco!». Domenica scorsa, 5 novembre, alla conclusione dell’Angelus, papa Francesco è tornato a invocare con forza lo stop alle armi, ad auspicare «che si percorrano tutte le vie perché si eviti assolutamente un allargamento del conflitto, si possano soccorrere i feriti e gli aiuti arrivino alla popolazione di Gaza, dove la situazione umanitaria è gravissima». Un’attenzione particolare per gli ostaggi e i bambini «coinvolti in questa guerra, come anche in Ucraina e in altri conflitti: così si sta uccidendo il loro futuro».
È passato un mese dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, una guerra che si sta dimostrando feroce. Al di là delle tante trasmissioni televisive, dei fiumi d’inchiostro, dei vertici diplomatici più o meno decisivi, delle visite in loco di capi o segretario di Stato (l’ultima visita in Medio Oriente del segretario di Stato Usa Antony Blinken si è conclusa qualche ora fa) cosa resta di questo mese di oltraggi all’umanità? Quelle del Santo Padre sembrano essere le uniche parole di pace in una situazione in cui le cancellerie d’Oriente e d’Occidente sembrano solo silenti o balbettanti.
Ieri, anche nel discorso consegnato alla Conferenza dei rabbini europei, il Pontefice non ha taciuto (anche se il discorso non è stato letto, ma solo consegnato, a causa di un affaticamento): «Ancora una volta la violenza e la guerra sono divampate in quella Terra che, benedetta dall’Altissimo, sembra continuamente avversata dalle bassezze dell’odio e dal rumore funesto delle armi. E preoccupa il diffondersi di manifestazioni antisemite, che fermamente condanno, Non le armi, non il terrorismo, non la guerra, ma la compassione, la giustizia e il dialogo sono i mezzi adeguati per edificare la pace».
L’umanità progredisce continuamente a livello di conoscenza tecnologica; oggi la medicina è capace di mete inimmaginabili fino a qualche tempo fa. Quello che sappiamo e possiamo fare per il benessere di tutti, se solo si volesse, sarebbe strabiliante. Eppure, passano i millenni, passano i secoli, e nulla cambia rispetto al come l’umanità ritiene di porre rimedio ai conflitti. Lo abbiamo vissuto più volte nel corso del Novecento, quando si pensava che la seconda guerra mondiale (segnata anche dalla Shoah e dall’uso della bomba atomica) avrebbe cambiato il modo di guardare alla guerra e alla pace. Il seguito, con la Guerra fredda, ci ha fatto capire che così non sarebbe stato. E per venire solo agli anni recenti, basta ricordare solo in Europa, la terribile guerra balcanica degli anni Novanta e il conflitto russo-ucraino, ancora in corso.
È passato giusto un mese dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, con il contagio possibile e sempre latente a livello regionale. Con oltre 1.400 vittime su fronte israeliano e ormai 10mila tra i palestinesi di Gaza. E nessuna compassione, nessuna giustizia, nessuna volontà di dialogo sembra essere capace di farsi breccia nella «bassezza dell’odio».
Tornano alla mente le parole di uno dei maestri della sociologia contemporanea, Zygmunt Bauman, che chiamava alla costruzione di una unica comunità umana come solo antidoto alla guerra.
La storia è piena di eventi bellici – sosteneva – perché la tentazione è sempre di definire un noi e un loro, di ragionale in termini di inclusione o di esclusione. «Abbiamo bisogno invece – scriveva Bauman – di sentirci tutti “noi”, di non identificare l’altro come estraneo al gruppo. Abbiamo bisogno di essere tutti parte di un’unica entità, per giungere finalmente alla pace». Oggi ci troviamo in un mondo iperconnesso, eppure la consapevolezza che i destini dell’umanità sono comuni, legati tra loro, fa fatica a farsi strada.
Viviamo nell’illusione che i conflitti, anche quelli più sanguinosi, si possano gestire. Costruiamo narrazioni che dividono il mondo in buoni e cattivi. Parliamo di «pause umanitarie alle guerre» (così Blinken), per poi riprendere come prima la mattanza, in nome di un diritto alla difesa, di un credo religioso o di un progetto politico…
Ma la guerra, come insegnava l’ebreo Albert Einstein, «non si può umanizzare, si può solo abolire».