La situazione del Medio Oriente, dopo l’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre scorso, è in continua ebollizione. Soffiano venti di guerra in Libano, dove il movimento sciita Hezbollah sta intensificando il lancio di razzi verso Israele. La Siria, considerata una retrovia dell’Iran degli ayatollah, ha subito il bombardamento degli aeroporti di Aleppo e di Damasco da parte dell’aviazione israeliana, per scongiurare eventuali rifornimenti d’armi da Teheran a Hezbollah e Hamas. Anche dallo Yemen, il poverissimo Paese piegato da una sanguinosa guerra civile, la fazione sciita houthi ha lanciato razzi e droni verso Israele. Insomma, il tentativo delle milizie filo-iraniane è quello – palese – di costringere Israele ad aprire altri fronti di guerra e a sguarnire il fronte di Gaza.
Il re sotto pressione
Tra i Paesi che stanno vivendo gravi tensioni dopo il 7 ottobre c’è anche la Giordania, dove re Abdallah II, sta subendo sempre più pressioni interne perché si schieri contro «il nemico sionista». La Giordania, va detto, è da decenni un fedele alleato dell’Occidente. Ha ospitato durante tutte le Guerre del Golfo il comando delle operazioni militari in Medio Oriente e ospita ancora oggi un nutrito contingente americano. Re Abdallah è considerato, nelle cancellerie, più filoamericano della metà dei leader europei.
Di fronte ai bombardamenti israeliani su Gaza, cresce però nella popolazione e nell’establishment militare giordano l’insofferenza. Al punto che c’è chi chiede al sovrano di stracciare il trattato di pace che la Giordania raggiunse con Israele il 26 ottobre 1994.
Non è un caso che, forse anche per parare i colpi interni, la Giordania si sia fatta promotrice presso l’Assemblea Generale dell’Onu di una bozza di risoluzione, a nome degli Stati arabi, relativa alla situazione di Gaza. Il testo, che si concentrava sulla tregua, garantendo l’ingresso degli aiuti e impedendo il trasferimento forzato della popolazione civile, pur non avendo valore vincolante, ha ottenuto 120 voti a favore, 14 contrari (tra cui gli Stati Uniti e Israele) e 45 astenuti (tra cui l’Italia).
L’atmosfera che sta vivendo il regno hashemita e le pressioni sulla Corona sono oggetto di un lungo articolo pubblicato su Middle East Online il 23 ottobre, a firma di Sean Matthews.
Troppo vicini all’Occidente?
«Stretta tra Iraq, Siria, Israele, Cisgiordania e Arabia Saudita, la Giordania è orgogliosa di essere un bastione di stabilità in una regione instabile. Amman è una delle capitali più favorevoli agli Stati Uniti, di fatto la città preferita dalle ong occidentali e dagli studenti di lingua araba». In più «la monarchia hashemita della Giordania riceve circa 1,6 miliardi di dollari all’anno in aiuti dagli Stati Uniti. Almeno 3 mila soldati americani sono di stanza in basi sparse in tutto il Paese, dove collaborano con le forze armate giordane nelle operazioni antiterrorismo».
Ma ora cosa sta succedendo? «I diplomatici del Paese, normalmente pacati, si scagliano pubblicamente contro Israele, avvertendolo di non intraprendere passi che equivalgano a “una dichiarazione di guerra”. Addirittura, il re ha accusato Israele di essersi macchiato di “crimini di guerra” nella Striscia di Gaza. Insomma, i governanti giordani stanno cercando di tenere il passo con la rabbia del loro popolo».
Per comprendere meglio la situazione, bisogna ricordare che gran parte della popolazione giordana è di origine palestinese. Nel 1967 circa 300mila palestinesi fuggirono in fretta e furia al di là del Giordano dopo la Guerra dei Sei giorni e la conquista di Gerusalemme da parte d’Israele. Oggi sono circa 2 milioni i cittadini giordani di origine palestinese. Tra di essi anche la consorte del re, la regina Rania.
La coppia reale ha il suo bel daffare nel cercare di placare gli animi, ma non passa giorno, racconta Matthews, che «migliaia di manifestanti si radunino ad Amman davanti all’ambasciata americana nell’esclusivo sobborgo di Abdoun e davanti all’ambasciata israeliana evacuata, denunciando i misfatti sia del presidente americano Joe Biden sia di Benjamin Netanyahu».
I timori per una svolta drammatica in Cisgiordania
C’è di più. Una decina di giorni fa, i manifestanti si sono scontrati con le forze di sicurezza mentre tentavano di assaltare l’ambasciata israeliana. Taluni hanno inneggiato ad Hamas affinché colpisca Israele con più razzi, sventolando la bandiera del gruppo terroristico.
L’invasione massiccia della Striscia di Gaza da parte d’Israele, sarebbe «uno scenario da incubo» per il regno hashemita, che a quel punto farebbe decisamente fatica a contenere il dissenso interno, alimentato dalla percezione che gli Stati Uniti stiano dando carta bianca agli israeliani contro i palestinesi.
L’atteggiamento americano verso il governo dello Stato ebraico sta insomma consolidando quella che in Medio Oriente è più di una sensazione: un crescente disinteresse, anche dell’attuale amministrazione Biden, per le sorti del Levante. In un’intervista alla Cnn di qualche mese fa, re Abdallah aveva raccontato di essere preoccupato per una «nuova intifada» e per il «completo crollo della legge e dell’ordine» in Israele e Palestina.
Tra i timori che stanno prendendo piede nell’opinione pubblica giordana, c’è che Israele intenda annettere l’intera Cisgiordania occupata ed espellere i palestinesi sospingendoli a est del fiume Giordano. Un fantasma che ha preso ancora più corpo quando, dopo il 7 ottobre, Israele ha paventato la fuoriuscita di oltre un milione di palestinesi dal nord della Striscia di Gaza. «Re Abdallah – scrive Matthews – ha affermato che la ricollocazione forzata dei palestinesi verso l’Egitto o la Giordania è una “linea rossa”, mentre il suo ministro degli Esteri, Ayman Safadi, ha affermato che sarebbe considerato “un atto di guerra”».
Tra le preoccupazioni per nulla taciute dall’establishment giordano, c’è anche la possibile deflagrazione del conflitto nei Territori palestinesi occupati di Cisgiordania. Ci si ritroverebbe anche in questo caso un conflitto sanguinoso alle porte di casa, con conseguenze difficilmente controllabili, dato che il confine del Giordano è piuttosto poroso…
Sotto tiro
Ciò che re Abdallah sembra temere maggiormente è però l’aumento di prestigio, capacità di attrazione e «peso politico» di Hamas anche dentro il suo regno. Nel contesto di un Medio Oriente radicalizzato, e in un Paese come la Giordania che ha vissuto anche in tempi recenti momenti critici per mano del fondamentalismo jihadista, l’astro splendente di Hamas potrebbe davvero offrire combustibile al malcontento sociale e alle sirene della guerra santa islamica.
Per non parlare del rischio che si sta concretizzando sul confine siriano, da dove milizie filo-Hezbollah e milizie jihadiste stanno intensificando i lanci di razzi verso Israele. Fonti d’intelligence spiegano che anche la Giordania potrebbe diventare, in quanto alleato degli Stati Uniti e Paese «in pace» con Israele, un potenziale obiettivo. Ragion per cui il ministro della Difesa del regno hashemita avrebbe chiesto al Pentagono di dispiegare anche in territorio giordano il sistema di difesa missilistico Patriot.