Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Israele, sulle strade per la guarigione con il cuore a pezzi

Giulia Ceccutti
26 ottobre 2023
email whatsapp whatsapp facebook twitter versione stampabile
Israele, sulle strade per la guarigione con il cuore a pezzi
Una delle famiglie palestinesi accompagnate in auto dai volontari dell'associazione Road to Recovery nel corso degli anni. (foto Road to Recovery)

Tra i fili di dialogo e incontro che, dolorosamente e con fatica, non si sono spezzati, in questi giorni difficili per israeliani e palestinesi, c'è l'esperienza dell'associazione Road to Recovery. Abbiamo parlato con la presidente, Yael Noy.


Concordiamo un’intervista telefonica la mattina molto presto. «Mi scusi, più tardi non posso perché sono giorni piuttosto pieni e impegnativi», mi scrive in un messaggio Yael Noy. Da sei mesi è la presidente di The Road to Recovery (La strada per la guarigione, in ebraico Ba’derech L’Hachlama), associazione israeliana nata nel 2010. A fondarla Yuval Roth, tra i membri di Parents Circle, il forum di famiglie israeliane e palestinesi in lutto per aver perso dei propri cari, rimasti uccisi nel conflitto in corso.

The Road to Recovery, come abbiamo già raccontato tempo fa, è un’organizzazione formata da una fitta rete di volontari ebrei che trasportano, con le loro auto, malati palestinesi – per la maggior parte bambini, bisognosi di cure salvavita – fino ad ospedali israeliani. Vanno a prenderli e li riportano ai numerosi check-point dislocati in tutto Israele al confine con i Territori Occupati. Fino al 7 ottobre scorso parte dei pazienti transitava dal valico di Erez, a nord della Striscia di Gaza. Ora, com’è noto, il valico è chiuso.

Dal 2010 a oggi, le attività dell’associazione – che fino a settembre contava 1.300 volontari in tutto Israele, coordinati da 17 attivisti – non si sono mai interrotte, neppure durante i periodi di conflitto né i mesi più bui della pandemia di Covid-19.

Yael abita a Gita, un piccolo villaggio nel nord d’Israele che da qualche giorno ha ricevuto un ordine di evacuazione a causa degli attacchi di Hezbollah dal Libano. È tra gli abitanti che hanno scelto di rimanere: spera infatti che nell’arco dei prossimi giorni le cose miglioreranno. È però nata e cresciuta ad Alumim, un kibbutz vicino alla Striscia di Gaza distrutto durante gli attentati di Hamas del 7 ottobre. A lungo è stata la coordinatrice di The Road to Recovery per la Striscia.

«La situazione è molto, molto difficile. Non può immaginare quanto», la telefonata inizia così. «Personalmente, piango per tutti gli israeliani che sono stati uccisi o rapiti durante l’attacco di Hamas nel sud del Paese, e ho paura per tutti i miei bambini e gli amici palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza. Tenere insieme il dolore di tutti è impossibile». Yael non riesce a trattenere le lacrime.

Sono 8 (ma il numero è destinato, purtroppo, a salire) i volontari dell’associazione, o familiari di volontari, uccisi da Hamas nei kibbutz e nelle città del sud, quali Kfar Aza, Na’an, Be’eri, Ashkelon. In 7 si trovano tuttora tra gli ostaggi rapiti e portati nella Striscia. Tutti i kibbutz degli attivisti che abitavano nella zona al confine con la Striscia di Gaza oggi non esistono più: «I nostri amici non hanno più una casa», ricorda Yael.

«Sto lottando con tutta me stessa – continua – per cercare di rimanere una brava persona. Ma non è facile; mi verrebbe da dire: “Al diavolo tutto!”. Qualcosa nel mio cuore si è spezzato. Ma ne abbiamo discusso con gli altri membri dell’associazione: non possiamo buttare via tutto quello che in tredici anni abbiamo costruito. Non possiamo e non vogliamo, anche se ora ci costa moltissimo».

(foto Road to Recovery)

Così, i passaggi in auto per i pazienti palestinesi dai Territori Occupati stanno continuando, tra emozioni contrastanti e difficoltà di vario tipo. Yael spiega che gli ostacoli maggiori sono ora rappresentati dal minor numero di permessi concessi dal governo israeliano per l’uscita dai Territori; dalla ridotta disponibilità degli ospedali ad accogliere altri pazienti (resta alto il numero dei feriti israeliani a seguito delle violenze dei giorni scorsi); dalla paura dei palestinesi stessi a intraprendere queste trasferte.

«Cerchiamo di fare del nostro meglio per aiutare», commenta Yael. «I volontari stanno dando una trentina di passaggi al giorno, andata e ritorno. Il numero va crescendo quotidianamente e ho fiducia continuerà a farlo».

Attualmente gli ospedali presso cui vengono accompagnati i malati si trovano nella zona di Tel Aviv (Tel Aviv Sourasky Medical Center, Shiba Hospital di Ramat Gan e Schneider Children’s Medical Center, a Petah Tikva) e nel nord, a Haifa, come nel caso del Rambam Hospital.

La narrazione nei media israeliani non lascia spazio in questo momento a storie come quella di The Road to Recovery. «Nessuno degli organi di stampa e televisione del Paese ci sta prestando ascolto. Siamo visti come nemici, o come amici dei nemici. La realtà è che non vogliono ascoltarci, né far sapere ciò che facciamo. Qualche giornalista ci ha anche contattato, ha chiesto cosa pensiamo di cose come “riconciliazione” e via di seguito. Ma poi nulla è stato pubblicato».

Chiediamo a Yael di dirci quel poco che possiamo fare dall’Italia, oltre naturalmente a prestare loro voce. «Pregate per noi e abbracciateci. Abbiamo bisogno di questo: preghiere e un abbraccio».

Articoli correlati
Il giardino segreto
Roberta Russo

Il giardino segreto

L’Albero del Natale e gli altri simboli della tradizione
David Maria Turoldo
Mario Lancisi

David Maria Turoldo

Vita di un poeta ribelle
Spiritualità della bellezza
Anna Peiretti

Spiritualità della bellezza

Viaggio nella divina arte delle icone