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Lo stato di guerra tra israeliani

Giuseppe Caffulli
25 ottobre 2023
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Lo stato di guerra tra israeliani
Veicoli militari israeliani nel kibbutz Be'eri, uno dei più devastati dagli eccidi del 7 ottobre scorso. Israele scosso e scioccato si blinda. (foto Chaim Goldberg/Flash90)

Devastato e sotto choc per gli eccidi del 7 ottobre scorso tutt'intorno alla Striscia di Gaza, Israele è in stato di guerra, anche dal punto di vista psicologico. Si riducono libertà e spazi d'azione per le voci fuori dal coro e in qualche caso si sconfina nella caccia all'uomo.


Il suo nome è Israel Frey. È un giornalista ebreo ultraortodosso israeliano con simpatie di sinistra. Qualche giorno fa un suo post su X (già Twitter) ha avuto quasi due milioni di visualizzazioni. Raccontava di come si era trovato a fuggire di casa e a nascondersi, insieme alla sua famiglia, per scampare alle violenze di un gruppo piuttosto consistente di ebrei facinorosi. Dal suo rifugio, Israel Frey ha continuato anche nei giorni seguenti a denunciare che considera una «via senza uscita» la campagna militare in corso contro Gaza.

La vicenda di Frey è stata ripresa domenica anche dal giornale britannico The Guardian, a firma del suo corrispondente da Gerusalemme Julian Borger. Il quotidiano di Londra ha preso però l’occasione per allargare l’orizzonte agli abusi che, in nome della sicurezza, si stanno compiendo in Israele.

Se sembra abbastanza logico (seppur non giustificabile) che in una situazione di guerra l’esercito intervenga con mano pesante in aree ritenute infiltrate da Hamas (ieri, a Jenin, sarebbe stato ucciso uno dei dirigenti del movimento in Cisgiordania), quello che sta capitando entro i confini dello Stato ebraico aiuta a comprendere il grado di tensione (e forse di paranoia) a cui si è giunti.

«Due attivisti di un movimento pacifista arabo-ebraico – racconta Borger – sono stati recentemente arrestati in Israele per aver affisso manifesti con un messaggio che la polizia ha ritenuto offensivo. Il messaggio era: “Ebrei e arabi, supereremo questa situazione insieme”. Agli attivisti, membri di Standing Together, sono stati confiscati i manifesti e le magliette con slogan pacifisti in ebraico e arabo».

Ma non è, quello riportato, un caso isolato. Nei pressi di Porta Nuova, a Gerusalemme. è stato chiuso d’imperio un esercizio commerciale solo perché diffondeva all’esterno musica araba. «In tutto Israele – scrive l’articolista – le persone vengono detenute, licenziate dal lavoro e persino attaccate per aver espresso sentimenti interpretati da alcuni come dimostrazione di simpatia per Hamas dopo l’attacco omicida del 7 ottobre. La definizione di pro-Hamas viene spesso ampliata per includere espressioni di simpatia per la difficile situazione dei bambini palestinesi intrappolati a Gaza, o appelli alla pace, soprattutto se espressi sia in arabo che in ebraico».

In nome della sicurezza, sono finiti nel mirino delle forze dell’ordine medici (uno di questi è Abed Samara, medico cardiologo in un ospedale israeliano, reo di aver postato l’immagine di una colomba con un ramoscello d’ulivo), studenti universitari e semplici cittadini che chiedono di fermare il conflitto, e per questo prontamente arruolati nelle fila del nemico. Una linea, a dar credito a quanto riportato dal Guardian, frutto della discrezionalità concessa alla polizia nel determinare chi e cosa è sostegno al terrorismo di Hamas.

Oltre alla paura di interventi arbitrari della polizia, capita anche che le intimidazioni vengano perpetrate da individui e gruppi senza volto, ai danni sia di ebrei che di arabi israeliani dissidenti, specie utilizzando i social media.

La storia di Israel Frey, reo di aver recitato in un video la preghiera per i morti (Kaddish) sia per le vittime ebree massacrate da Hamas, sia per i morti civili periti sotto i bombardamenti israeliani di Gaza, è emblematica: un anonimo ha postato sulla piattaforma di messaggistica Telegram dati personali e indirizzo del giornalista. Risultato? Gruppi dell’ultradestra si sono assembrati sotto la casa del malcapitato, lanciando sassi e razzi incendiari contro la sua finestra. E costringendo lui e la famiglia alla fuga e alla clandestinità.

Per Alon-Lee Green, direttore di Standing Together, la maggior organizzazione di base arabo-israeliana con oltre 5 mila iscritti, quello di Frey è solo un esempio tra le tante intimidazioni nei confronti degli israeliani che si oppongono alla politica del governo e alla punizione collettiva dei palestinesi.

«Molte persone vengono licenziate dal lavoro a causa di opinioni politiche diverse o semplicemente della loro identità – spiega Green -. Ogni giorno riceviamo centinaia di telefonate alla nostra hotline. Uno potrebbe pensare che abbiano espresso sostegno ad Hamas, ma la stragrande maggioranza ha semplicemente lanciato appelli per fermare la guerra».

Insomma, il doxing (la diffusione di dati sensibili, personali o privati con lo scopo di recare un danno – ndr) contro gli attivisti pacifisti e i dissidenti sta diventando un fenomeno diffuso. Ori Kol, co-fondatore di FakeReporter, un gruppo attivo nella lotta alla disinformazione e all’odio online non ha dubbi: «Oggi in Israele si sta diffondendo un’atmosfera di paura, ad opera degli haters, gli odiatori, che diffondono in rete dati personali e indicano potenziali nemici».

«È abbastanza casuale chi prendono di mira – spiega Kol –. Fanno trapelare i dettagli di un noto regista cinematografico di sinistra, il suo numero di telefono e il suo numero di carta d’identità, e il minuto dopo danno la caccia a un’infermiera palestinese nel nord di Israele, che potrebbe aver caricato su un suo profilo social qualche foto di Gaza».

Un altro campo di battaglia tutto interno alla società israeliana, conclude Borger, che non può non preoccupare.

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